“Non perdo la speranza. Tutto finisce, anche i problemi della mia terra. E allora ritornerò a casa”. ZaKaria arriva dalla Somalia, ha solo 25 anni e vive nel passato. Il suo sogno è sempre stato quello di fare il giornalista. Un sogno che, pur diventando una condanna, non ha smesso di essere la sua forza. Scappato da Mogadiscio, porta con sé tre taccuini di viaggio, o meglio di fuga. Un’odissea durata 354 giorni.
La fuga
Subito dopo il funerale del suo maestro di giornalismo, Mahad Ahmed Elmi, una bomba ha fatto saltare l’auto del collega Sharmarke. ZaKaria ha capito che doveva scappare. I suoi ultimi servizi radiofonici lo avrebbero inchiodato senza speranza. “Sono finito in Italia per caso. Scappavo non sapevo dove sarei andato. Non sono orgoglioso della fuga ma non c’erano altre via d’uscita”. Ha attraversato il deserto, l’Etiopia, il Sudan e la Libia. Il primo tentativo via mare fallisce. Il gommone affonda sotto il carico delle cinquantotto persone a bordo. A galla per tre giorni, una barca tunisina li ha riportati indietro. O la Libia o il mare. “I tunisini si sono dimostrati peggio dei libici, hanno picchiato anche i bambini”. Lasciati nel confine tunisino, sono ritornati a piedi in Libia. Il secondo tentativo va meglio: la barca era di legno ed erano solo in quarantadue. Arrivati a Lampedusa, ZaKaria e i compagni somali sono stati ben accolti. La Somalia è stata nei primi del novecento una colonia italiana e si riserva una certa attenzione ai profughi di questo Paese.
In Italia
Il suo sogno diventa il passepartout per essere riconosciuto come rifugiato. Zacaria, inconsapevolmente, ha portato con sé la documentazione per il riconoscimento del titolo di rifugiato: gli attestati di studio e, soprattutto, gli articoli pubblicati. Perché scrivere è stato il suo sogno ovunque e comunque. In Italia da tre anni conosce bene la lingua, vuole imparare a scrivere da giornalista e lavora come operatore sociale nel centro ENEA, struttura di seconda accoglienza nata nel 2007. Chi conosce i diritti dei rifugiati sa che dovrebbero avere un sussidio che permetta loro di vivere, ma non viene garantito. Sa che dovrebbero avere un alloggio; anche questo non è facile ottenerlo. E quando c’è, trattasi di un dormitorio che dalle nove del mattino alle sei del pomeriggio ti costringe a bighellonare in città. “Ci vorrebbe una guida che aiuti ad ambientarci. E soprattutto centri d’ascolto immediati. Appena sbarcati la prima cosa che desideriamo è raccontare, essere ascoltati e capiti”. Chissà cosa conservano quei taccuini, una storia simile e diversa da migliaia di altre. Quelle su cui sorvoliamo mentre un servizio televisivo ci mostra uomini e donne ammassati sulle spiagge siciliane. “Sono arrivato a Lampedusa, uno tra tanti, uno di quelli che puzzano, che non si sa dove metterli, che starebbero meglio a casa loro e che oggi vengono respinti in Libia”.
La Somalia
Se si digita su google images la parola Mogadiscio, le prime due pagine sono immagini di guerra. Forse l’unica città esente da panoramiche turistiche. La Somalia si trova in un limbo sanguinario dal 1991, quando cadde la dittatura di Siad Barre. Signori della Guerra e Corti Islamiche sono protagonisti apparenti di una situazione che, come scrive Giulio Albanese, “preconizza una mediorientalizzazione dell’intero Corno d’Africa. E gli irrefrenabili interessi internazionali legati al controllo delle riserve di idrocarburi e di uranio presenti nel sottosuolo somalo, non solo foraggiano a dismisura le innumerevoli bande armate che infestano la Somalia, ma stanno acuendo anche la crisi darfuriana e la guerra fredda tra Etiopia ed Eritrea, facendo del Continente Africano la linea di faglia tra Oriente e Occidente”.
Daniela Basile