Municipio VI: il tempo libero delle comunità romena e nigeriana

Sabato di fine luglio, le due del pomeriggio, un caldo torrido, si sente solo il frinire delle cicale nella piazza davanti a Santa Maria Causa Nostrae Laetitiae al Villaggio Breda a Grotte Celoni. All’interno della chiesa i primi banchi sono già occupati da giovani coppie con bambini vestiti a festa, l’occasione è il battesimo dell’ultima nata. Celebrerà il sacramento Don Isidor Iacovici, da diciasette anni in Italia, mandato espressamente dal Vescovo della sua diocesi per occuparsi della comunità cattolica romena di Roma.É stata obbedienza, non una scelta, stavo bene a Iaşi” spiega Don Isidor, alto, imponente, sorridente, nella sua tonaca bianca, accerchiato dai membri della comunità romena che lo salutano. “Inizialmente ci si riuniva per le celebrazioni nella chiesa di Santa Maria in Campitelli, dal 1996 siamo passati a San Vitale, a via Nazionale. Questa chiesa centrale raccoglie soprattutto donne, lavoratrici che fanno un grosso sforzo per arrivare, provengono principalmente dall’estrema periferia Nord, Nord Ovest di Roma: Boccea, Passo Corese, Labaro. Anche qui a Villaggio Breda confluiscono da lontano, da 50, 70 chilometri di distanza, ci si incontra per la messa della domenica. É una comunità formata da molte badanti e da famiglie in prevalenza giovani, in occasione delle feste come il Natale si arriva ad essere 300, 400 persone. Numerose anche le presenze nei gruppi per le prime comunioni e le cresime, attualmente due gruppi di centoventi ragazzi.”I romeni  cristiani che vivono a Roma sono sia cattolici, soprattutto provenienti dalle regioni che confinano con la Moldavia, che ortodossi, fra questi anche la maggioranza dei Rom provenienti dalla Romania. Quest’anno nella chiesa di San Vitale è stato organizzato un incontro delle due comunità. In genere le prime a partire per l’Italia sono le donne,” iniziano con un lavoro da badante fisso, che implica non avere il problema di trovare una casa, solo dopo due o tre anni passano a impieghi con orario lungo. Gli uomini trovano occupazione principalmente nell’edilizia, spesso si tratta di lavoro precario, non mancano casi di sfruttamento, in queste situazioni generalmente ci si rivolge al sindacato. Anche per gli uomini la casa è un problema, quando arrivano trovano alloggio in appartamenti che condividono con una decina di persone”.

Don Isidor  racconta che “le giornate lavorative sono così intense che non esiste praticamente il  tempo libero tranne, forse, la domenica. Ho cercato di organizzare delle attività negli altri giorni della settimana, ma quasi per tutti era impossibile seguirle. L’unica cosa fattibile è stato inserire la domenica alle 11, prima della messa delle 12.30, un corso di preparazione sulla Bibbia. Altre occasioni di incontro sono i concerti natalizi e, a livello cittadino, la Festa dei popoli, che quest’anno a causa delle restrizioni dovute alla pandemia invece che a maggio si terrà in forma ristretta il 26 settembre.
Tra i cittadini di origine romena ci sono quelli che hanno 40, 50 anni e che sono venuti in Italia con l’obiettivo di mettere da parte i soldi per costruirsi una casa in Romania e che quindi torneranno nel paese d’origine. Poi ci sono quelli arrivati negli anni ’90 che hanno comprato una casa e che resteranno a Roma. Le generazioni più giovani che hanno 25-30 anni se raggiungono la stabilità economica, la casa e si sposano è possibile che rimangano in Italia, ma negli ultimi anni c’è anche chi si trasferisce in Gran Bretagna, Irlanda o Germania dove trova un lavoro migliore.

Municipio VI: musica e maschere della tradizione nigeriana

Per Steve Emejuru, nato e vissuto in gioventù in un villaggio della Nigeria, le maschere sono parte integrante non solo degli usi e costumi tradizionali del suo paese ma della sua vita. “Secondo la tradizione le maschere sono di due tipi diversi, una tipologia è sacra, volta evocare gli antenati. Queste maschere  sono le uniche che attraverso gli sciamani possono parlare con i morti: portano la buona novella, decretano cosa sia stato fatto bene e cosa male. Le maschere sono guidate nei loro movimenti dal flauto o da altri strumenti. Canto, danza e musica, suonata con particolari strumenti fatti di legno, terra o metallo che i musicisti devono essere in grado di realizzare o di aggiustare in caso di necessità, si imparano fin da piccoli,” spiega Emejuru, “ci si aggrega in gruppi in base alle fasce di età. Durante il periodo del college ho cominciato a insegnare danza, perché nelle nostre celebrazioni religiose non solo si canta ma anche si balla, mentre le maschere restano fuori dalla chiesa”. Fu Paolo VI che nel 1969, nel primo viaggio in Africa di un papa, disse ai vescovi “tutte le cose belle delle vostre culture possono essere utilizzate per onorare Dio. Da allora i canti, le danze, le musiche della tradizione divennero strumenti per lodare Dio”.
Con il suo bagaglio di cultura tradizionale Steve arriva in Italia nel 1982 “La scelta del paese dove ultimare gli studi l’ha fatta mia madre, ha escluso i paesi anglofoni, anche se il fatto di conoscere la lingua mi avrebbe facilitato, e soprattutto gli Stati Uniti ‘da lì finisce che non torni più’.  Inizialmente la meta doveva essere la Francia, poi l’Italia è diventata la mia destinazione”.
Arrivato a Roma per Steve “Riuscire a raggiungere la casa dello zio è stato un incubo, non parlavo una parola d’italiano, la lingua è una grossa barriera per i nigeriani che arrivano in Italia”. Un altro problema è stato il cibo. “La prima volta che mi hanno proposto un piatto di spaghetti ho vomitato, mi sembrava di mangiare vermi. Da allora sono passati 40 anni, dopo la laurea in Giurisprudenza ho cercato lavoro, oggi faccio il mediatore interculturale”.
Per Emejuru “I ragazzi che arrivano sono diversi da quelli di allora, c’è chi vende tutto per pagare i trafficanti e venire in Europa perché a causa dello sfruttamento e dell’inquinamento del delta del Niger la pesca e l’agricoltura sono distrutti e trovare lavoro è diventato difficile, a questo si aggiunge l’azione terrorista di Boko Aram, che agisce dove i giovani cercano un’occupazione. Negli anni 80 e 90” prosegue Steve, “molti immigrati provenienti dalla Nigeria lavoravano in campagna come stagionali o facevano i venditori ambulanti. Altri erano occupati nelle case italiane prima dell’arrivo delle donne dall’est Europa, poi per razzismo sono stati licenziati e sostituiti con personale non di origine africana. Non c’è inclusione in Italia, è strano che gli italiani si siano dimenticati di essere un popolo di migranti, chi non è italiano autoctono difficilmente può concorrere alla vita operativa del paese”. Ma Steve denuncia anche un altro malessere più contingente: “uno dei limiti del vivere in questo territorio è che l’amministrazione del Municipio VI non abbia realizzato alcun progetto per le famiglie”
“I canti, le danze, le maschere le abbiamo portate nelle scuole,” spiega Steve “sono uno strumento per far conoscere la nostra comunità. Un modo per fare intercultura, affinchè attraverso la conoscenza cadano i pregiudizi”.

Municipio VI: la preghiera della Comunità nigeriana tra musica e canti

La comunità nigeriana è stata accolta nella chiesa cattolica dei Santi Giuda e Taddeo a Torre Angela dove si riunisce la domenica per la messa. In chiesa i migranti si sentono a casa: la lingua dei canti, le musiche, i profumi evocano ricordi, aiutano e consolano, attutiscono la nostalgia.

Il gruppo Musiche migranti dell’Università di Tor Vergata, localizzata nel VI Municipio, documenta la realtà musicale dei luoghi di culto animati da fedeli migranti. “La comunità cattolica nigeriana ha, dagli anni ’90, come chiesa nazionale Sant’ Ambrogio al Portico d’Ottavia, frequentata soprattutto in occasione delle festività principali, ma si incontra anche nella chiesa cattolica dei Santi Giuda e Taddeo a Torre Angela,” spiega Vanda Viola Crupi, etnomusicologa, ricercatrice esperta di musiche liturgiche e paraliturgiche delle comunità eritrea e nigeriana di Roma, e una dei membri di Musiche migranti.
La comunità nigeriana che si raccoglie nella chiesa dei Santi Giuda e Taddeo è guidata da Don  Primus, arrivato dalla Nigeria nel 2014, dal 2016 cura la catechesi, la preparazione ai sacramenti della comunità e celebra ogni domenica la messa in lingua inglese con canti sia in inglese che nelle lingue locali del suo paese “un rito più inclusivo rispetto a quello della chiesa ufficiale probabilmente perché nato in una zona dove risiedono parte delle persone che lo frequentano. La musica e la danza hanno una funzione sociale, un ruolo forte, sono ‘un bagaglio leggero’ che crea casa ovunque e anche preghiera”, spiega Crupi, “Non solo suoni e canto, perchè per gli Ibo la musica e il canto muovono il corpo anche nella liturgia, un modo per ricreare qui la propria casa.”  Tra gli strumenti più utilizzati le congas, il gong metallico che dà la linea ritmica, un’anfora di terracotta con ventaglio, i tipici shekere nigeriani: zucche svuotate e levigate rivestite di una rete alla quale sono annodate conchiglie e perline, a volte anche la tastiera, raramente la batteria. “La particolarità della messa della comunità nigeriana è che dilata il tempo anche fino a tre ore, i momenti che nel rito in Italia sono brevi si allungano con i canti e la musica tanto che per i nigeriani il nostro culto è corto e noioso” spiega Crupi.

Municipio VI: comunità nigeriana e associazionismo

“L’associazionismo della comunità nigeriana è molto sviluppato” continua Crupi, “me ne sono resa conto in occasione di una delle loro principali feste, quella del raccolto, che si svolge ogni anno in una diversa città d’Italia fra fine settembre e l’inizio di ottobre. Durante la benedizione vengono presentate le diverse associazioni della comunità a partire dai bambini fino ai più anziani, spesso suddivise per genere.

 

Don Primus ha incoraggiato la formazione di una corale di giovani accanto a quello già esistente degli adulti, la comunità è in periferia e accoglie fedeli nigeriani da altre periferie. In un sabato estivo con il sole alto nel cielo che rende il piazzale davanti alla chiesa dei Santi Giuda e Taddeo privo di ombre, sulla destra da un edificio a un piano arrivano voci femminili che intonano un canto, poi si interrompono, parlano, si leva una risata: sono le ragazze del coro nigeriano voluto da Don Primus che provano. Gloria la giovanissima direttrice racconta che “la nascita del coro dei giovani nigeriani è stata un’opportunità per riunire ragazze e ragazzi che erano molto divisi, perché per confondersi con i giovani romani ci si associava mal volentieri. Si è formato un gruppo composto da studenti liceali e universitari che hanno la stessa identità religiosa, la maggioranza è nata in Italia e ha la doppia cittadinanza” Gloria racconta che “da piccoli si coglie la lingua del paese d’origine, una volta cresciuti con i genitori si parla in inglese, con le sorelle e i fratelli in italiano. A scuola ho avuto screzi solo alle elementari, mentre sia alle medie che al liceo il rapporto con i coetanei italiani è stato buono”.

L’impegno del coro può essere oneroso “Partecipare al coro è una scelta impegnativa, non tutti riescono a rispettare gli appuntamenti settimanali del sabato mattina. Se i genitori non ti hanno abituato alla disciplina, l’impegno settimanale è difficile da ottemperare, inoltre non è facile mettere insieme scuola, lavoro. Se ci siamo riusciti è stato anche grazie al coro degli adulti che ci ha insegnato come studiare. Per far conoscere la nostra attività e gli appuntamenti abbiamo deciso di aprire una pagina sui social: Glorious Voice Younth Choir. In occasione delle feste principali, Natale, Pasqua, battesimi, il coro si occupa degli aspetti organizzativi: allestimento locali, bevande, ecc. Il cibo è preparato dalle donne sposate, la realizzazione dei piatti è un’occasione importante, in genere non possono mancare jollof rice, riso al sugo e fried rice, riso con diverse verdure e zucca, saltato in padella.
Prima di congedarsi Don Primus spiega “La maggiore difficoltà per i miei connazionali che arrivano in Italia è imparare la lingua italiana” e infatti anche lui preferisce esprimersi in inglese. L’altro problema è trovare lavoro e avere i documenti “si attendono 3, 4 anni per i documenti e nel frattempo niente lavoro. Per trovare un’occupazione generalmente non si ricorre all’esterno, c’è collaborazione all’interno della comunità nigeriana. Siamo ospiti nella chiesa di Torre Angela” continua Don Primus: “e a nostra volta siamo molto gentili e mostriamo segni di  fraternità e amore per gli italiani. Mentre con l’amministrazione del Municipio non c’è nessun rapporto”

Municipio VI: il calcio tra svago e lavoro

Ionut Popa, classe 1992, sposato con due figli, vive da venti anni in Italia e sempre nella stessa città, Roma. È arrivato in Italia dalla Romania per andare a giocare nella Lazio. All’età di 14 anni però un brutto infortunio stronca sul nascere una carriera che prometteva bene. Tuttavia, nonostante i dottori di allora dissero che Popa si doveva ritenere fortunato di riuscire ancora a camminare, a circa vent’anni ha ripreso a giocare a calcio.

 

Riparte dalla seconda categoria, poi ha giocato in promozione. Partecipa anche al torneo del Mundialido, il torneo di calcio per stranieri, indossando la maglia numero 10 della Romania.

Quando racconta dell’immigrazione dei suoi connazionali, Popa ritiene che in questi ultimi anni i romeni preferiscano l’Inghilterra o il Belgio all’Italia. I romeni sono la principale comunità di immigrati in Italia con oltre 1.145.716 residenti nel 2020, rappresentano oltre un quinto della popolazione straniera in Italia, circa tre volte più numerosi della seconda e della terza comunità di immigrati nel paese, cioè albanesi e marocchini. L’Italia, perciò, con oltre un milione di romeni, è di gran lunga il primo paese di destinazione, ospitando da sola quasi un terzo di tutti i migranti romeni presenti nell’area dell’OCSE (circa il 30%). A emigrare, sono nella maggioranza dei casi, i giovani, della fascia d’età che va dai 25 ai 34 anni, e anche molti bambini.
Tra le priorità per i romeni che giungono in Italia c’è la conoscenza della lingua. Da questo punto di vista Ionut si ritiene fortunato perché “il calcio mi ha aiutato tanto. Quando ero adolescente, tra la scuola e il calcio, in due mesi ho imparato l’italiano”.
Di notevole importanza, per chi arriva, è anche l’alloggio, per il quale spesso i romeni si rivolgono a un parente o ad un amico. Lo stesso vale per il lavoro, perlomeno per quanto riguarda il primo approccio. Anche Ionut ha trovato lavoro tramite conoscenze, ad aiutarlo è stato il suo testimone di nozze. Ma poi accade che è all’interno della comunità stessa i rapporti diventino problematici “Una volta eravamo più uniti. Mi vergogno, c’è un forte sentimento d’invidia che dilaga nella nostra comunità. Fra di noi c’è competizione, mentre con gli italiani la convivenza è buona”.

 Nicoletta Del Pesco, Marco Marasà15/09/2021

 

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