Perché indossare il velo? La parola alle donne

La bellezza è nella diversità come la libertà è nell’hijab”, recitava una campagna contro la discriminazione promossa dal Consiglio d’Europa e cofinanziata dalla Commissione europea; allo slogan si accompagnava un breve video in cui foto di donne sorridenti si succedevano una dopo l’altra: in ogni diapositiva, la stessa persona era ritratta per una metà con il capo completamente scoperto, per l’altra metà con un hijab a coprire la capigliatura. Le critiche che l’iniziativa ha suscitato nel mondo politico francese hanno indotto il Consiglio d’Europa a ritirare il video e i relativi messaggi promozionali, con l’impegno alla rielaborazione della campagna.

La Redazione di Piuculture ha approfondito il tema relativo al significato del velo, come elemento culturale e religioso, attraverso delle interviste a donne di origine straniera ed italiana.

Sonia Lima Morais – Presidentessa dell’Associazione donne capoverdiane

Il velo è libertà?

In me convivono due diversi punti di vista.
Da donna femminista, sostenitrice dell’importanza di un approccio intersezionale nel definire l’individualità della persona, è fondamentale riconoscere e accogliere le istanze culturali di ognuno e il modo in cui esse si manifestano. Tuttavia, in questo momento faccio fatica a vedere il velo come simbolo di libertà, sebbene abbia conosciuto donne femministe che portano avanti la nostra causa e lo indossano.

Ricordo un viaggio ad Istanbul di due anni fa: lì ho visto tante donne velate e il primo impatto mi ha lasciata un po’ turbata; poi, ha prevalso la sociologa che è in me. Ho cominciato ad osservare comportamenti e dettagli dell’abbigliamento delle donne che incontravo: i ricami presenti sul velo indossato da alcune, l’attaccatura dei capelli che si intravedeva in altre; c’era chi indossava abiti ampi che coprivano integralmente la persona, ma lasciando emergere scarpe e bracciali. In ciascuno di questi particolari ho visto un modo per esprimere la propria personalità.

Ricami e fantasie: un modo per esprimere la personalità (foto di Piuculture)

All’Esquilino, dove vivo, mi capita di incontrare mamme, che indossano il velo, andare a prendere i figli a scuola e ho notato che le figlie sono spesso vestite interamente “alla occidentale”. Questo mi ha fatto riflettere sull’importanza, in questo contesto, della presenza di una rete di riferimento – a partire dagli insegnanti di italiano per stranieri – che non si limiti a identificare il velo come un elemento culturale, ma si adoperi per fare in modo che indossare il velo sia frutto di una scelta consapevole. In questo modo il velo può essere un mezzo di autodeterminazione, in relazione al quale la società ha il dovere di impedire che esso sia motivo di pregiudizio, di esclusione oppure di ostacolo al vivere una vita piena.

Nel momento in cui indossare il velo è frutto di una scelta personale, esso esprime il coraggio di chi lo indossa in una società molto giudicante, come la nostra, in cui tale mezzo di espressione rischia di essere reso un motivo di discriminazione che si aggiunge a quello di essere donna.

Il velo è costrizione?

Penso che nella nostra società ci sia una visione molto occidentale del velo, spesso obnubilata da un passato di anni di lotte per la libertà del proprio corpo ed è forte, anche per una femminista, il rischio di lasciarsi andare nel giudicare un’altra donna, magari anche lei femminista, perché indossa il velo, senza averle chiesto le ragioni di questa scelta.
Non mi sento di definire il velo come una costrizione, anche se faccio fatica a lasciar andare quella parte di me che percepisce il velo non proprio come uno strumento di libertà. Ritengo, però, che non si possa esprimere un giudizio sull’indossare il velo solo sulla base di uno sguardo: è necessario un approfondimento caso per caso sulla persona e sui motivi che l’hanno condotta ad indossarlo.

Saida Hamouyehy – Scrittrice di origine marocchina

Il velo è libertà? Il velo è costrizione?

Queste domande si integrano l’una con l’altra, sono due aspetti di una stessa questione, da considerare unitariamente. Penso che il velo non si possa inserire in una categoria precisa e statica, costruita sulla semplice contrapposizione generale tra libertà e costrizione: l’analisi deve essere fatta prendendo in considerazione il vissuto di ogni singola donna. Indossare il velo è libertà quando è frutto di una scelta libera e personale, espressione di un orientamento religioso e culturale personale; esso, però, può diventare costrizione nel momento in cui è imposto dalla famiglia o dal contesto sociale di appartenenza. Un versetto della Sura della Giovenca, la più lunga del Corano, recita: “Non vi è costrizione nella religione”. Ciò significa che il modello di vita proposto da una religione non deve essere imposto, quindi anche indossare il velo deve essere espressione di una libera scelta individuale.

Il velo può trasformarsi in una barriera, tra la donna e la società in cui vive, impedendo la conoscenza reciproca tra loro: la donna e la società; per evitare che ciò si verifichi entrambe devono essere capaci di trascenderla, sebbene non sia semplice. In questo contesto, dunque, il velo può essere anche uno strumento di difesa, usato da chi lo indossa per proteggersi da una società che lo identifica come il simbolo di un certo tipo di islam, deformato dai media e da alcuni intellettuali.

Alcune amiche hanno vissuto questo tipo di esperienza e, sebbene il velo sia stato loro imposto, vi hanno poi trovato uno strumento per difendersi da una società in cui non si sono sentite accettate e che le ha spinte a fare una vita concentrata nell’ambito familiare. Altre amiche, invece, hanno deciso di indossare il velo per propria libera scelta e lo vivono con serenità sia nell’ambito delle amicizie e conoscenze personali che nel contesto lavorativo. Per quanto mi riguarda, il velo non mi è mai stato imposto e, per il momento, ho scelto di non indossarlo, decidendo di vivere il mio Islam interiormente perché sento che né io né la società siamo pronte ad affrontare insieme questa sfida. Ciò, però, non significa che la mia fede sia meno salda o che in futuro non potrò fare una scelta diversa.

Negli ultimi decenni, tra le femministe islamiche, sono maturati due diversi orientamenti. Da un lato vi sono coloro che hanno sostenuto che, in passato, il Corano sia stato sempre interpretato da uomini i quali, quindi, ne hanno dato una lettura androcentrica: le sostenitrici di questa tesi ritengono, infatti, che il velo non sia obbligatorio e che esso sia frutto di una imposizione introdotta da parte degli uomini che, all’epoca, governavano i Paesi a maggioranza islamica. Dall’altro lato, invece, vi sono coloro che, pur ritenendo che il velo non sia imposto dal Corano, pensano che esso costituisca il modo corretto di vivere la religione. Entrambi gli orientamenti, infine, sostengono che il Corano e gli altri testi della religione islamica dovrebbero essere riletti dal punto di vista delle donne.

Ho sentito parlare della campagna del Consiglio d’Europa che ha suscitato molto scalpore in Francia e ritengo ci siano due aspetti da considerare. Non condivido del tutto lo slogan di riferimento dell’iniziativa perché non è sempre vero che l’hijab sia simbolo di libertà: talvolta, infatti, esso può essere simbolo di costrizione e, per valutarlo, occorre considerare il punto di vista di tutte le donne. Allo stesso modo, non condivido la totale preclusione, esistente in Francia, nei confronti della possibilità di indossare il velo in luoghi pubblici, nel caso in cui non copra il volto, dato che l’esigenza di sicurezza, posta a giustificazione del divieto, in questo modo verrebbe comunque soddisfatta.

Concordo, però, con una delle affermazioni dello slogan: “La bellezza è nella diversità”.

Infomigranti Laboratorio di Piuculture 2016

Hagar Keshk – è nata in Italia da genitori egiziani. Vive a Roma, è musulmana e indossa il velo.

Il velo è libertà?

Riguardo allo slogan dell’Unione Europea, “Il velo è libertà”, lo condivido però bisogna calarlo nel contesto occidentale. Se fosse stato formulato in un paese come l’Iran che ha leggi restrittive non lo avrei condiviso. In Europa invece sì, credo che sia stato creato in sostegno alle donne musulmane.

Il velo non è solo un invito a coprirmi ma è anche una maniera di essere riconosciuta come un’appartenente alla fede islamica. Quando vado in giro per le strade, qui a Roma, non distinguo se una donna è una cristiana praticante oppure è laica.

Non è facile esprimere la propria fede nei paesi occidentali. In Francia per esempio vi sono una serie di leggi che ci respingono. In Italia invece mi sono sentita quasi sempre a mio agio. Sì, a volte sono stata presa in giro, ma in generale mi sento rispettata.

Il velo è costrizione?

Il velo non dovrebbe essere costrizione. Oggi vi sono due modi di indossare il velo. Con un particolare stile, un accessorio che caratterizza la persona e da abbinare con il vestiario, o per tradizione. In entrambi i casi c’è libertà. Tuttavia sono venuta  a conoscenza di casi in cui il velo è un’imposizione. Conosco tante mie amiche che non sono state costrette a indossare il velo. Personalmente, nessuno mi ha detto di indossare l’hijab. E’ stato un processo che è arrivato da solo. Vi sono donne che lo indossano a 30 anni e altre a 50 anni. Ci sono paesi, come l’Iran e l’Arabia Saudita che attraverso leggi obbligano le donne a indossare il velo.

È controproducente, se vuoi mantenere o promuovere una certa cultura cerchi di inserirla ma senza usare misure coercitive. L’Islam dà delle regole sul vestiario anche per gli uomini. Anch’essi non devono scoprirsi più di tanto. Per esempio non devono indossare vestiti aderenti. Le regole sul vestiario femminile sono più evidenti.

Quando si parla dell’Islam vi sono molti pregiudizi. L’Islam non è stata capace di combattere questi pregiudizi, soprattutto riguardo alla correlazione Islam e maschilismo. Nella maggior parte dei paesi occidentali le persone non sono informate su cosa insegni l’Islam. C’è perciò la tendenza a fare discorsi che concernono  la donna che non hanno un fondamento. Nella cultura islamica la figura femminile è molto importante. Per fare un esempio, posso citare Aisha, la più piccola moglie del profeta Muhammad, che, dopo la morte di quest’ultimo, ha trascritto gli Hadith, cioè i detti o i fatti del profeta. Se si guarda al passato, le donne sono state parte attiva della cultura islamica.

Nei paesi a maggioranza islamica, fino all’Ottocento non si attuava una politica fondata sulla restrizione. Mentre oggi sì, si è assistito a una chiusura. Le cause sono sicuramente da rintracciare nel colonialismo e nel post-colonialismo. Molti europei accusano i musulmani di voler tornare al “Medioevo”. Ma quale Medioevo? Quello occidentale è stato un periodo oscuro e contrassegnato dal regresso, ma quello orientale no. Il medioevo non l’abbiamo vissuto così.

Valeria Frascaro e Marco Marasà
(24 novembre 2021)

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