L’Albania nel suo cinema e gli Slogans sulle sue montagne

Le locandine dei film presentati per la rassegna L’Albania nel suo cinema

Quarantaquattro anni di comunismo, dal 1946 al 1990, che hanno segnato un paese, tra prima e dopo la caduta del regime, lasciando la sensazione indelebile del “totalitarismo che non solo comanda i tuoi comportamenti, ma anche le tue emozioni”. Di questo parla la vecchia e nuova cinematografia albanese, omaggiata per la prima volta dal festival L’Albania nel suo cinema, dal 2 al 5 giugno 2012 presso la Casa del Cinema di Roma.

Albania, 80 miglia da Brindisi, più vicina della Sardegna. Presente all’inaugurazione il regista Giuliano Montaldo, da Gli intoccabili (1969) a Sacco e Vanzetti (1971) grande esempio italiano della cinematografia di denuncia, che sottolinea i “paesaggi straordinari e i luoghi fuori dal tempo di un paese che dista solo 80 km da Brindisi”. L’ambasciatore della Repubblica Albanese a Roma, Llesh Kola, aggiunge che l’Albania “è più vicina all’Italia perfino della Sardegna. Abbiamo 200mila Arbëreshë – gli albanesi d’Italia – nel sud, una comunità storica, arrivata 20 anni fa”. “E con la democrazia possiamo finalmente collaborare” commenta Artan Minarolli, regista e Presidente del Centro Nazionale di Cinematografia Albanese di Tirana. Stupisce, ma a questo punto non dovrebbe, che tutti gli ospiti albanesi parlano perfettamente italiano.

Dal dramma al menefreghismo. Roland Sejko, giornalista, ex direttore di Bota shqiptare, il giornale degli albanesi in Italia, membro dell’Associazione Occhio Blu-Anna Cenerini Bova organizzatrice della rassegna, è regista di L’Albania il paese di fronte (2008), film su un paese che per l’Italia ha cominciato a esistere solo dopo il 1991, quando le prime navi di immigrati approdarono sulle nostre coste, nonostante la storia dell’Albania del ‘900 dimostri quanto sia legata a doppio filo alle vicende italiane. “A metà degli anni ’80 Paolo Pinto intraprese la traversata dell’Adriatico a nuoto, gli albanesi seguirono quella impresa con passione, tanti sotto il comunismo sperarono che si potesse davvero fuggire dall’Albania in questo modo. Due sono le tematiche presenti nei film di questa rassegna, prima e dopo la caduta del regime, un’idea generale di com’era e com’è il paese, dal genere più romantico e poetico, come in Kolonel Bunker all’impianto grottesco di Slogans. Ciò che emerge è la voglia di cambiare, difficile da realizzare in un periodo che fu estremamente confuso. C’è il dramma, ma anche l’allegria e il menefreghismo”.

Una scena da Slogans (Parullat) (2001) di Gjergj Xhuvani

Quando il cielo è chiaro dall’Italia si possono vedere le montagne albanesi, le stesse protagoniste del film Slogans (Parullat) (2001) di Gjergj Xhuvani, che ha inaugurato il Festival e che fu premiato sia a Cannes con lo Young Critics Award che a Tokyo con il Golden prize, seguito lo stesso giorno da Kolonel Bunker di Kujtim Çashku e da altri titoli interessanti come Amnistia (2011) di Bujar Alimani, il più recente, o Tirana anno zero (2001) di Fatmir Koci. Domenica 3 giugno un grande evento dedicato a Piro Milkani, veterano albanese, e a La tristezza della signora Schneider (2008) in co-regia con il figlio Eno, film presentato assieme a Gianni Amelio: i due si conobbero sul set del film Lamerica, in cui Milkani recitò la parte di Selimi. “I film albanesi sono i più visti al mondo” affermò il regista, svelando ironicamente “perché sono i più visti nella Cina comunista”.

Gli Slogans con le pietre. A presentare Slogans lo sceneggiatore, Ylljet Aliçka, autore di un libro di racconti Parrullat me gurë (Motti con le pietre – 1999), uscito anche in Italia nel 2006 con il titolo I compagni di pietra, dal quale è stato tratto il film. Nato a Tirana nel 1951, Aliçka ha insegnato per diversi anni, durante il regime comunista, nelle scuole elementari delle regioni montuose dell’Albania. La sua è una storia autobiografica, “è la mia esperienza prima della caduta del regime: eravamo costretti a costruire con le pietre slogan politici sulle montagne”. La platea sembra interdetta, “cosa eravate costretti a fare?” Ma la sua risposta è sarcastica come nello stile del film: “mi dispiace per voi che avete lasciato le montagne senza slogan, ogni totalitarismo non comanda solo i tuoi comportamenti, ma anche i tuoi sentimenti”.

L’attore Artur Gorishti che interpreta Andre-Ylljet Aliçka

Fine anni ’70, un paesino sulle montagne che, per rimanere in tema, ricorda un po’ Orgosolo. Il nuovo insegnante di biologia, Andre, scopre che in quella scuola elementare dove è stato trasferito da Tirana, insegnanti e alunni sono costretti dalla sezione del Partito del Lavoro che inneggia a Enver Hoxha a costruire con le pietre giganteschi slogan comunisti sulle pareti delle montagne, seguendo i dettami di una vera e propria “metodologia dello slogan in pietra”. L’assurdità delle azioni – dagli auguri, con tanto di torta, per l’acquisto di una tv alle condoglianze ripetute all’infinito – rende il film “leggero”, ma a pensar bene alla storia vera o alla vera storia, è inquietante visualizzare bambini “carpentieri” piuttosto che studenti, costretti ad arrampicarsi sulle montagne per costruire frasi a loro incomprensibili come “L’imperialismo è una tigre di cartone” – “le lettere più difficili, come le esse, ai maschietti, le i alle femminucce e quelle accentate ai malati”. Insegnanti a scrivere sulle lavagne frasi come “In alto lo spirito rivoluzionario”, impartendo insegnamenti come “Il nemico peggiore è colui che dimentichi”. Bambini a riparare gli slogan dalle intemperie e a sorbirsi lezioni di geografia comunista: in una scena si vede il figlio di un proletario declassato povero e analfabeta, che durante un’interrogazione afferma, correggendosi subito dopo, “la Cina è un paese revisionista”. Il ragazzo subirà un vero e proprio processo, “perché i bambini sono più sinceri degli adulti”, che metterà nei guai suo padre. Nel frattempo Andre si innamora dell’insegnante di francese, ma ovviamente per questioni di decoro il partito impedirà la loro relazione in un vortice di angherie – combattute in modo blando e solo inizialmente – che alla fine si risolveranno in una totale assenza di cambiamento.

Slogans rende perfettamente il senso di sudditanza degli stessi vertici a un’idea che si è corrotta e di soffocamento e impossibilità a reagire dei sudditi dei sudditi. Quello che consola è che tutti sembrano seguire gli ordini, ma pochi crederci davvero. Anche se è difficile capire il senso del film e della storia fino in fondo. Fuori dalla Casa del Cinema due ragazze che seguono il festival per piacere, si soffermano a commentare la pellicola, l’italiana dice: “non lo so, non mi è piaciuto, anche se credo sia difficile comprendere una cultura diversa dalla propria, ma anche la mia amica, che è serba, l’ha trovato davvero strano. Oltretutto io mi aspettavo che il protagonista reagisse, che almeno seguisse la donna che amava! Invece non succede proprio niente, e questo è davvero pesante”.

Alice Rinaldi(2 giugno 2012)