Candele, percussioni, note di chitarra. Rispondono alla violenza con la musica, per rompere il silenzio su un razzismo strisciante che ha ucciso ancora. Molti sono giovani e giovanissimi. Sfilano in via del Corso illuminati dalla bandiera di una nazione che, per tanti di loro, è ancora divisa.Dalla Rete alla piazza. La mobilitazione, via mail e social network, parte martedì sera, dopo l’uccisione, a Firenze, dei cittadini senegalesi Mor Diop, 54 anni e Modou Samb, 40, ed il ferimento di Moustapha Dieng, 34, Sougou Mor, 32, e Mbenghe Cheike, 42 anni. L’omicida suicida è Gianluca Casseri, cinquantenne pistoiese vicino agli ambienti dell’estrema destra.“Quello che è accaduto a Firenze ci ha colpito da vicino, anche perché uno dei ragazzi, Modou Samb, è molto caro a uno dei nostri musicisti”. A parlare è Annie Gehnyei, alias Miss Annie, vocalist, cantante e speaker radiofonica di origini liberiane che insieme al fidanzato, Francesco Cucchi, aka Cukiman, dj e producer romano, ha formato PepeSoup, duo Afrotech/Uk funky. Un progetto musicale dal quale è nata una comunità artistica che promuove l’incontro tra Africa ed Europa. “Stiamo facendo il possibile affinché arrivi la nostra voce” spiega Annie “Perché in questo paese ci sono delle cose che vanno chiarite”. I fatti di Firenze, secondo lei, dimostrano l’esigenza di aprire un dibattito su dinamiche discriminatorie che continuano a riprodursi in un silenzio imperturbabile. “Non voglio generalizzare e dire che tutti gli italiani sono razzisti. Però gli episodi di intolleranza ci sono. Li ho vissuti personalmente e succedono alle persone che conosco”. Il vero problema è che: “Tutto viene coperto”. Quello che chiedono è vedere rispettati i diritti che dovrebbero ormai essere considerati fondamentali di ogni persona: “Non pretendiamo chissà che cosa, vogliamo che siano riconosciuti i nostri diritti in quanto esseri umani”. La fiaccolata è solo il primo passo: “Ci metteremo in contatto con altre associazioni e organizzeremo nuove manifestazioni”.La punta di un iceberg. “Quello che è successo è anche il risultato del periodo che stiamo vivendo. A me sembra una guerra tra poveri”. Gerard ha 27 anni e vive in Italia dal 1994, anno in cui ha dovuto abbandonare il suo paese, il Ruanda, a causa della guerra tra hutu e tutsi. Ora frequenta il secondo anno di specialistica in Scienze Politiche all’Università La Sapienza. “Ritornano sempre i vecchi problemi razziali perché la politica continua a presentare gli stranieri come il male dell’Italia. Un meccanismo per distogliere l’attenzione dalle questioni che riguardano i cittadini”.“Razzismo silenzioso. Io lo definirei così. Ed è la cosa che mi spaventa di più. Quella dinamica per cui se hai la pelle nera sei per forza un vu’ cumprà o una donna delle pulizie. E se sei vestita bene vuol dire che sei stata adottata”. Mary Gehnyei, 31 anni, è la sorella di Annie. “I miei genitori vengono dalla Liberia. Io sono nata a Roma, ho sempre vissuto qui, i miei amici sono quasi tutti bianchi. Considero Casseri un mio connazionale”. Per Mary è inaccettabile la tolleranza di ideologie che possono sfociare in forme di violenza inaudite: “Molti ragazzi si avvicinano ai gruppi neo-nazifascisti per gioco. Ma per alcuni diventa una fede, una sorta di religione. Per Casseri è stato così. Queste persone andrebbero fermate prima di arrivare a simili tragedie”.Sotto la superficie di atti estremi imputabili a minoranze si celano problemi quotidiani generalizzati: “Pur essendo nata a Roma, non ho la cittadinanza italiana e questo mi fa rabbia perché lo considero un mio diritto”. Per lo stato italiano, spiega, lei è un’extracomunitaria: “Ogni anno, quando scade il permesso di soggiorno, non posso fare una serie di cose, anche cose banali come ad esempio segnarmi in palestra. Per viaggiare all’estero devo presentare 1800 richieste. La mia vita è stata sempre così. E ora sono stanca”. Anche nel mondo del lavoro la situazione non è semplice: “Il brutto è che risulti simpatica perché sei nera e parli con l’accento romano, ma la tua professionalità non arriva”.Quello che manca davvero, nella sua opinione, è l’educazione: “Nel momento in cui un bambino pone la domanda ‘Mamma perché quel ragazzo è di quel colore?’ ecco è lì che dovrebbe iniziare l’integrazione, nell’insegnare a rapportarsi alle persone, non al colore della pelle”. Il suo pensiero va alla nipotina Ginevra: “Il papà è italiano e il caso ha voluto che venisse più chiara. Crescendo si troverà in una comunità che un domani, vedendo la madre nera che l’accompagna la mattina a scuola, la scambierà per la babysitter”.Tra rabbia, paura e speranze. “Relegare tutto a follia è veramente pericoloso” afferma Francesco Cucchi, che condanna la “semantica del razzismo” dei media generalisti: “Abbiamo letto titoli che l’hanno definito ‘giustiziere’, altri che parlavano di ‘safari’. Questo ha ferito ancora di più”.“La vicenda di Firenze spaventa perché poteva succedere a chiunque” spiega Gerard, ma, aggiunge: “La paura da parte di noi stranieri c’è sempre stata. Vivendo a Roma io so che ci sono gruppi di estrema destra. Quando sono in strada di notte ho la consapevolezza che potrei incontrare delle persone che potrebbero farmi del male”. Tuttavia, come altri, è convinto che si tratti di minoranze: “Che ci sono in tutte le società. Io non penso che gli italiani siano razzisti”. Né si aspetta ritorsioni da parte della comunità senegalese: “Gli africani in generale non sono violenti. Sono persone che ragionano e non credo che reagiranno alla violenza con altra violenza”.Per Eric, studente di Economia alla Sapienza, proveniente dal Benin, è un problema di tempi: “In Italia il fenomeno migratorio è piuttosto recente. Qui sta accadendo quello che paesi come la Francia hanno vissuto decenni fa”. Tuttavia: “Non è accettabile che nel 2012 si verifichino ancora fatti del genere. Come non è accettabile che in Italia lavori comunissimi, come il conducente d’autobus, o il banchiere, siano completamente preclusi ai neri”.Anche Fabrizio e Francesca pensano che nel tempo le cose stiano cambiando: “Io sono nata ad Atlanta, in Georgia, Fabrizio è italiano. Oggi di coppie come noi ce ne sono tante. Dieci anni fa non era così”. L’integrazione, secondo loro, sarà il risultato di una presenza multiculturale sempre più ampia: “La gente ha bisogno di abituarsi”. Deve esserci però uno slancio da parte del paese: “Se l’Italia non progredisce molti degli stranieri che sono arrivati qui decideranno di andarsene, come fanno già tanti italiani”.
Sandra Fratticci(15 dicembre 2011)