Che il settore sociale abbia poco appeal, dal punto di vista dell’interesse del pubblico, si è sempre avuto il sospetto, ma che non sappia proprio comunicare e che la maggior parte della colpa sia dei giornalisti, è sicuramente una novità. Un mix di ammissioni di limiti e malcontento verso “un certo giornalismo di categoria che non sta facendo un buon lavoro, tra pigrizia, scarso interesse e poca obiettività”: questo il fondo del discorso di Comunicare l’immigrazione, incontro che si è svolto lunedì 20 febbraio 2012 presso la facoltà di Scienze della Comunicazione.
Comunicare l’immigrazione è anzitutto un handbook co-finanziato dall’Unione Europea, il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e quello dell’Interno, realizzato da Lai-momo, redattore di Africa e Mediterraneo e Idos, già curatore dei rapporti Caritas/Migrantes. “La creazione di questo handbook è la prima tappa di tre”, dice Maria Cecilia Guerra, sottosegretario alle Politiche di Integrazione, “la seconda prevede, con la collaborazione dell’Ordine dei Giornalisti del Lazio, sei seminari di aggiornamento per le emittenti a copertura regionale. La terza tappa sarà una spring school riservata a 50 giovani allievi delle scuole di giornalismo, selezionati tramite concorso sul tema. L’intento è creare dei buoni comunicatori del settore”.
L’handbook si divide in sei capitoli. Il primo Lo scenario migratorio in Italia è un pratico riassunto del più recente rapporto Caritas/Migrantes corredato da dati ISTAT: il 9,5% della popolazione laziale è straniera, la maggior parte viene dall’Europa, in particolar modo dalla Romania. Il secondo capitolo affronta Il quadro legislativo offrendo una rapida cronologia delle leggi italiane sull’immigrazione dagli anni ’70 a oggi. Il terzo capitolo I migranti in Europa rivela che i tre quarti della popolazione straniera è concentrata soprattutto in Germania, Spagna e Regno Unito. Un’interessante tabella mostra i paesi europei che offrono l’acquisizione della cittadinanza per ius soli, ciò che la campagna L’Italia Sono Anch’io sta cercando di rendere effettivo anche in Italia. Sono solo sei: Belgio, Germania, Grecia, Irlanda, Portogallo e Regno Unito. Il quarto capitolo è il cuore dell’handbook I media italiani e l’immigrazione: riporta un’utile sintesi della Carta di Roma, il protocollo deontologico del settore. Il capitolo 5 raccoglie Storie positive di immigrazione, tra cui quella di Ali Assaf, iracheno e romano dal 1973, artista che si ispira a Caravaggio e che nel 2011 ha curato il padiglione dell’Iraq alla Biennale di Venezia. Il capitolo 6 raccoglie il Glossario e una delle tante citazioni letterarie che colorano il libro: Vivere nel mondo di oggi ed essere contro l’uguaglianza per motivi di razza o colore è come vivere in Alaska ed essere contro la neve. William Faulkner.
“La comunicazione è funzionale dunque: se l’immigrato è citato solo in riferimento alla cronaca nera e giudiziaria, essa diventa per forza di cose negativa, viziata e piena di stereotipi. Lo stesso linguaggio si sviluppa tramite dati allarmanti, quando poi la realtà non lo è: per esempio gli sbarchi di quest’anno hanno registrano 48mila persone e non mezzo milione come si poteva pensare ascoltando i Tg”. Proprio per coadiuvare una migliore comunicazione il Ministero dal mese scorso ha aperto il Portale dei migranti, dove è possibile scaricare l’handbook. Anche Mario Morcellini, presidente di Facoltà, sottolinea gli elementi ricorrenti del giornalismo di settore: “37 anni di comunicazione – dal 1975, da quando si emigrava a quando è giunta l’immigrazione – fatta di ripetizioni e retorica. Come se il giornalismo non sapesse fare i conti con l’altro”.
Dulce Araujo, giornalista capoverdiana di radio Vaticana, sottolinea che “la comunicazione sociale riflette ciò che succede nella società, quindi per esempio si dovrebbe dare più peso alla cultura, che è molto scarsa rispetto a sicurezza e pericolo. L’immigrato porta con sé un bagaglio che rende il mondo più creolizzato. Capo Verde lo sa bene, lo è storicamente. Su di voi lo scrittore svizzero-tedesco Max Frisch”, riferendosi al periodo della grande emigrazione italiana in Svizzera, “disse: volevamo braccia, sono arrivati uomini. Non dimenticandoci mai che l’immigrazione è anche una perdita per il paese d’origine. Oggi “‘l’Africa ha le vene aperte’” come ieri ce le aveva l’America Latina di Edoardo Galeano, “perde forze fondamentali per il proprio sviluppo”.
Ribka Sibhatu, eritrea, laureata in Comunicazione, scrittrice e ricercatrice del Forum per l’Intercultura di Roma, con la sua simpatia molto acuta ci apre gli occhi su una serie di questioni. Anzitutto ci racconta che svolse proprio con Morcellini una tesi sul Corno d’Africa, per sottoporre la complessa realtà all’attenzione pubblica, “ma ancora oggi nessuno ne parla, nonostante stia per scoppiare una nuova guerra tra Eritrea ed Etiopia. E la guerra”, non si sottolinea mai abbastanza, “è la causa principale e più grave dell’immigrazione”. “Ci sono cose positive, forse l’immigrazione oggi non è più accostata a un problema, ma molte altre son peggiorate: vent’anni fa non succedeva che un bianco entrava su un treno affollato senza problemi e io sì. Un tempo la gente si ribellava se succedeva qualcosa del genere”. Scherza Ribka sul linguaggio e le terminologie: “non so voi, ma io non trovo nulla di male nel colore ‘nero’, ma quando la gente preferisce dire per esempio ‘di colore’ mi fanno capire che forse il nero non è un granché. Ma allora perché tutti vanno al mare?”. Affronta la questione dell’immaginario sull’Africa decisamente sbilanciato sul negativo: “una volta una giornalista mi chiese, ‘in Africa cosa c’è di bello?’. Allora forse per il giornalismo e la comunicazione sarebbe utile “un’eterogeneità di presenze: farci attori noi stessi, protagonisti dei media italiani”. Solo pochi anni fa si parlava di un uomo che investì un bambino a Torbellamonaca, si chiamava Bita Panayot, “ma io sono sicura che nessuno di voi ricorda questo nome, perché veniva chiamato ‘L’albanese’: un unico caso usato per stigmatizzare un popolo”. Queste sono le cose da evitare: l’osservazione di Ribka mi fa realizzare ancora meglio il perché, per meccanismi comunicativi analoghi, anni fa avevamo l’ossessione degli albanesi, che poi è toccata ai marocchini, e oggi ai rumeni.
Stephen Ogongo, giornalista di Africa News, in seguito all’intervento di Ribka si presenta come un “diversamente colorato”. La platea ride, ma Stephen fa un discorso molto duro: “comunicare l’immigrazione è anzitutto un servizio alla società. Bisogna capire il tema ed essere preparati, come qualsiasi giornalista di qualsiasi sezione. Leggo ogni giorno confusioni di ogni tipo, tra il decreto flussi e la sanatoria, tra immigrazione e clandestinità. I giornalisti contribuiscono a creare immagini distorte. Invece bisognerebbe cominciare a parlare di cose che non si dicono; non considerare gli immigrati come ‘persone di passaggio’ ma come persone che vivono e molte amano questo paese, anche se forse non resteranno qui per sempre. I giornalisti sanno che l’informazione incompleta è inutile, non si capisce perché allora spesso questo non si tiene da conto con il tema immigrazione”.
Insomma, “comunicare l’immigrazione è una cosa nobile, può salvare qualcuno, può aiutare le persone a uscire dalla clandestinità. Al contrario se fatta male può spingere altri a diventare clandestini, cioè rinunciare a esistere e quindi ad avere diritti. È veramente importante che le argomentazioni non siano superficiali perché si parla della vita delle persone. Ormai l’Italia è multietnica, non possiamo continuare a ignorarlo, semplicemente perché non si torna indietro”.
Alice Rinaldi(20 febbraio 2012)