Le donne si (s)coprono come vogliono

“Dalla lotta per scoprirsi alla lotta per coprirsi. L’uomo preferisce spogliare piuttosto che scoprire. Scoprire necessita curiosità, spogliare pura manualità. Una spogliata è già scoperta. Una scoperta è una piccola conquista di mistero. Scoprire è trovare qualcosa che prima non c’era. Scoprirsi è offrire se stessi senza che nessuno te lo chieda. Scoprire è liberare. Scoprirsi è comprendere. Spogliare è esporre. Scoprire è svelare. È meglio una scoperta o un mistero? È bella la libertà di un mistero che si è lasciato scoprire, poco a poco. Le donne si (s)coprono come vogliono”. JOSIAM

“La libertà non è a senso unico”, dice Fedouà Jalmous, ventottenne marocchina a Roma da vent’anni, “i paesi occidentali emarginano le donne velate e hanno un atteggiamento che crea strani paradossi: da una parte si scandalizzano reputandole donne sottomesse all’uomo, dall’altra prendono provvedimenti che penalizzano esclusivamente loro. Addirittura multandole se appaiono velate in strada” – ad oggi in Francia e in Belgio e in riferimento a burqa e niqab, i veli integrali – “la multa non è un incentivo a farle uscire di casa. E allora, siamo sicuri che poi la colpa sia dei mariti? Dite sempre ‘voi non siete libere di…’, invece dipende dalle situazioni come in tutte le cose. Le donne occidentali volevano indossare la minigonna, quelle musulmane oggi vogliono essere libere di mettere l’hijab“, il velo che copre il capo e circonda il viso, “e soprattutto di lavorare”. Dalla lotta per scoprirsi alla lotta per coprirsi, il dibattito sui media individua poche problematiche – la ‘sottomissione’ o l’‘estremismo’ – che riflettono, ad oggi, pochi casi concreti. Raramente ci si focalizza sulla donna e ciò che realmente voglia.

“Il velo diventa una scusa con cui si allontana la donna dal mondo del lavoro e questo è uno dei motivi per cui si rimane sottomesse a padri, fratelli, mariti…” “Per una donna velata trovare impiego a Roma è impossibile, in ogni caso dovrebbe togliere l’hijab durante le ore di lavoro”, spiega Fabiana, romana ventitreenne, convertitasi all’Islam da un paio d’anni, lavora come vigilante addetta alla sicurezza nei negozi. “In un’impresa di pulizie per gli uffici il velo viene accettato, ma non se è previsto il contatto con il pubblico. Adesso non sto lavorando, perché il mio contratto è saltuario, così vado in giro libera di vestirmi come voglio”. Latifa Hemiani, imprenditrice marocchina in Italia da ventidue anni sottolinea che “il problema del lavoro è reale. Se da un lato vivendo in un paese occidentale devi avere una certa presenza, dall’altro chi porta l’hijab non può fare tutti i lavori, non può stare in luoghi dove ci sono alcolici o si è a contatto con gli uomini. Non può nemmeno salutarli, sapete?”

“Il velo sicuramente è un simbolo di sottomissione, ma solo a Dio”, continua Fedouà. “Voi avete la Chiesa, un’istituzione e una classe di ‘sacerdoti’ che rappresentano il sacrificio e una società di persone che non lo pratica. Nell’Islam non esiste questa distinzione: c’è solo una società di musulmani più o meno praticanti. Quindi il velo è un modo di completare il proprio credo. Forse avete l’idea che i musulmani stiano sempre a regolare i loro comportamenti in base ai precetti del Corano, lo leggono, ma si rapportano ad esso in modo spontaneo. Se un uomo mi dovesse trattare con disparità sarò io a fermarlo perché so che la mia religione non accetta le persone prepotenti”. “Le donne musulmane sono libere”, dichiara stanca di ripeterlo per l’ennesima volta Halima Tanjaoui, ventitreenne romana di origini marocchine, “certo non si può generalizzare. Io non mi sono mai sottomessa né indosso il velo per forza. Quando una persona che ami ti chiede di fare una cosa, tu la fai, che male c’è. Se poi a chiedertelo è l’Altissimo… io sono orgogliosa del mio velo, della mia diversità”.

Fabiana

Fedouà non porta il velo: “sono una musulmana laica”. I motivi sono diversi, portare o no il velo dipende anzitutto dalla famiglia: “io sono nata e cresciuta in Marocco fino agli 8 anni e nessuna delle mie parenti lo portava. Mio padre e mia madre però pregano cinque volte al giorno, come previsto dalla nostra religione, d’altronde loro non sono cresciuti in Italia come me”. L’Islam non sembra ammettere sfumature perché chi crede “ha una convinzione di fondo che porta avanti tutta la vita. Se inizi a pregare lo devi fare sempre, ma con i ritmi di vita di oggi, in occidente soprattutto, non è possibile”. Allo stesso modo, scrive l’antropologa egiziana Fadwa el Guindi: “non è possibile velarsi un giorno, e l’indomani lasciare lo hijab a casa”. Aishah, italiana di origine egiziana, la cui famiglia vive a Roma da più di trent’anni, porta il velo che copre tutto il corpo tranne il viso e le mani, lo jilbab, anche se “in Egitto, dove si portava a prescindere dalla religione musulmana o copta, non è più così diffuso”. Ma Fedouà sottolinea: “dopo l’attentato alle Torri gemelle più persone lo portano”, sfidando la paura di essere ‘al centro del mirino’, “perché molti paesi arabi hanno cercato di allontanare l’idea che ‘terrorista’ sia sinonimo di ‘musulmano’”.

Il velo è proprio “lo svelamento della propria identità”, scrive Paola Caridi nel suo Arabi invisibili: una frase rivelazione riguardo la stupidità della paura. Invece di vedere chiaramente chi abbiamo di fronte, ci concentriamo sulla potenziale pericolosità di un oggetto che nasconde. Per Aishah infatti è una frase senza senso: “non riesco a interpretare il velo come uno ‘svelamento’, perché la donna dovrebbe svelare la sua identità? O velarla? E cosa c’entra con il fatto di indossare il velo o meno?”

Serve una forte convinzione per indossare il velo, dunque. E una serie di altre ragioni: “il bello e il brutto dell’Islam è che circolano pensieri e ‘interpretazioni’ diverse, anche sul velo”, dice Fedouà. Ma secondo Aishah “lo si indossa per un motivo fondamentale: non mostrare il corpo della donna, considerato un diamante che non deve essere mostrato a chiunque”. La parte più preziosa di questo diamante sono i capelli: “rappresentano la metà della bellezza femminile” sottolinea Halima; e pensare che da noi è l’altezza! Sicuramente per molte “il velo è una sorta di ‘protezione’, per far passare la donna inosservata”, concorda Fedouà, “voglio sottolineare però che in occidente questo non può succedere, una ragazza col velo attira l’attenzione. Io non lo indosso proprio per timidezza”. L’osservazione di Fedouà suona paradossale: il velo serve proprio a coprire, alimentando quell’’aura di riservatezza’ che sembra maggiore nelle ragazze musulmane rispetto alle coetanee europee. “Questa caratteristica è richiesta dalla nostra cultura” sottolinea Aishah. “Condivido il velo”, ribadisce Fedouà, “ma non mi piacciono le contraddizioni: ragazze velate che girano con jeans attillati, il trucco vistoso, i tacchi alti…”

Fedoua

“Nel 2012 non esiste l’imposizione familiare”, dice Aishah, “è comprensibile che ci sia invece un’imposizione culturale: qualsiasi società può influenzare il modo di vestire di una ragazza. La cosa strana è l’imposizione legislativa: in Arabia Saudita le donne portano il velo a prescindere se ci credono o no, perché è la legge a dettarlo. Io mi sono sentita libera di metterlo”. La realtà del velo è variegata e tra i paesi musulmani esistono differenze che non si condividono: “in quelli più radicali, la ‘questione velo’ diventa estrema, o sei una buona musulmana perché lo porti o una poco di buono, giudizio che deriva più spesso dagli uomini. Non nascondo che io stessa avevo dei pregiudizi sugli uomini dell’Arabia Saudita – pensavo fossero rigidi e che non fosse possibile affrontare con loro certi argomenti, come l’omosessualità – conoscendoli mi sono ricreduta”.

Quello che vuole dire Fedouà è che si dovrebbe guardare di più a quello che pensano i giovani, superare un’immagine del mondo vecchia, veicolata dagli adulti. Perché sul piano delle nuove e seconde generazioni le cose sono diverse: “della mia cultura marocchina mantengo le cose semplici, quelle imparate da bambina: l’educazione e il rispetto per gli adulti e i nonni. Della cultura italiana tutto il resto, cercando di metterla su una bilancia per farla convivere con quella dei miei genitori. I punti di raccordo tra le due sono più di quelli che si pensa” – sempre per colpa di strane comunicazioni fallate: “non troverai nulla di troppo discordante nelle diverse culture o religioni, i pilastri per una buona convivenza ci sono in tutte. Nessuna ti dirà di uccidere o rubare. Ciò che cambia sono piccole cose”, quelle che creano il mondo vario e interessante, “il modo di vestirsi, di parlare, i cibi. Le differenze che sembrano enormi riguardano solo ‘l’evoluzione’ della mentalità. Oggi siamo più acculturati e spensierati, accettiamo praticamente tutto. Ma un italiano di ottant’anni è come mio padre: non concepisce i gay, le donne ‘svestite’, quelle che convivono invece di sposarsi. I giovani sono più simili. Le idee oramai girano: se una persona ha studiato abbatte qualsiasi differenza”.

Halima

Il problema è che non si percepiscono i cambiamenti: “in occidente non ci si accorge, ancora una volta, dell”evoluzione’, o peggio, si fa finta di niente. Vi siete stupiti della Primavera araba, ma le cose stavano già cambiando da tempo. Siamo ancora qui a parlare del velo, e nelle solite prospettive, quando lì per esempio si sta affrontando la questione del Ramadan in modo diverso e più flessibile: permettere a chi vive in un paese islamico di non fare il digiuno, perché ad oggi se ti sorprendono a mangiare prima del tramonto vieni arrestato”.

“Il nostro è un femminismo diverso, più comprensivo, che vede solo la donna e ciò che vuole” dice Fedouà. Anche Haifaa Khalafallah, direttrice del Centro per gli studi islamici mediterranei, sottolinea una differenza: “molte donne musulmane (col velo) trovano il femminismo occidentale irrilevante riguardo ai temi che realmente interessano loro”. Ma Aishah non è d’accordo: “i temi che riguardano le donne sono uguali in tutto il mondo, non c’è differenza tra femminismo occidentale e islamico. Dire che le donne con il velo hanno temi che le riguardano è come dire che ci sono temi che riguardano le donne che portano le maniche lunghe. Quello che voglio dire è che il velo non è niente oltre un modo di vestirsi”. Un’altra femminista, Nadia Yassine, scrive: “le donne occidentali non avevano alcun diritto, prima di lottare per ottenerlo. Da noi, invece, è l’inverso. Siamo state a poco a poco private dei nostri, di diritti”. C’è da chiedersi allora se questa confusione e ingigantimento del problema, non nasca da un’interpretazione maschilista dell’Islam che finora l’ha avuta vinta… ma anche qui Aishah è lapidaria, smentendo ancora una volta la nostra immagine sicura di ‘libere donne occidentali’: “questa frase vuol solo spiegare che l’Islam tutela i diritti delle donne senza aver bisogno di cercarli o chiederli, le donne occidentali invece hanno capito male: il fatto di essere trattate con parità dagli uomini diminuisce i loro diritti, non li aumenta affatto”.

Quale che sia il femminismo, la comunicazione si riconferma fondamentale: Fedouà osserva che “ai media piace parlare delle situazioni estreme, come il burqa, che è afghano e non fa parte della nostra tradizione, e di eccezioni che stigmatizzano tutto il resto. Del velo se ne parla solo in chiave negativa e accade che in Italia difficilmente frequentate ragazze col velo per pregiudizio; mentre le italiane convertite non vengono considerate ‘italiane’ se portano il velo nei luoghi pubblici. Comunque io sono fiduciosa che è solo questione di abitudine e tempo”.

Alice Rinaldi
(8 marzo 2012)