Primavera araba un anno dopo: offensiva conservatrice

A circa un anno dalla “primavera araba” permangono ancora dubbi e perplessità su quella che sarà la reale evoluzione del fenomeno, con l’occidente ancora non disposto a fidarsi. “Un diplomatico inglese negli anni ’60 disse: ‘date il mondo il mano agli arabi e lo tireranno giù in quindici minuti’, permangono gli stessi pregiudizi”, spiega Mattia Toaldo, docente di storia delle relazioni internazionali all’università Roma Tre e collaboratore della rivista di geopolitica Limes, intervenuto mercoledì 14 marzo nel corso di una tavola rotonda presso l’aula Wolf del dipartimento Comunicazione e ricerca sociale della facoltà di Scienze della comunicazione.

Il ruolo dell’Arabia Saudita Con il vuoto di potere creatosi in Medio Oriente dopo che gli Stati Uniti hanno cominciato ad occuparsi maggiormente dell’Asia che si affaccia sul Pacifico, l’Arabia Saudita ha cercato di emergere come paese leader dell’area, in un momento di grandi sconvolgimenti che l’hanno costretta a muoversi con molta attenzione su più fronti rischiando di sconvolgere delicati equilibri geopolitici.  Esempio in tal senso il caso  siriano: “da una parte vogliono destabilizzare l’elite politica sciita per portare al potere i sunniti, che sono la maggioranza della popolazione. Ma se questo avvenisse  – secondo Giuseppe Anzera, docente di sociologia delle relazioni internazionali nella facoltà di Scienze della comunicazione – sarebbero favoriti i fratelli musulmani, malvisti dai sauditi perché, almeno in teoria, riformisti”. La storia dei rapporti tra il regno saudita e il movimento politico dei fratelli musulmani è un alternarsi di alti e bassi, “negli anni ’50 sono stati alleati contro il nemico comune Nasser, che fece dell’Egitto una repubblica laica”.

La controffensiva saudita e qatariota Gli interventi dell’Arabia per frenare i moti rivoluzionari sono stati di diverso tipo, “da quello diretto nel Bahrein, al sostegno politico/militare nello Yemen, al supporto a forze estremiste come i salafiti in Egitto”, erroneamente visti come alleati dei fratelli musulmani ma in netto disaccordo su più punti programmatici. Ma anche il piccolo Qatar – solo 11 mila km quadrati per 1,7 milioni di abitanti – ha messo in campo ingenti somme di denaro, vista la grande disponibilità di liquidi, “donando 500 milioni di dollari all’Egitto per ripianare il debito pubblico e promettendo altri dieci miliardi per potenziare lo sviluppo, appropriandosi di gangli vitali dell’economia”, sono i dati forniti da Lorenzo Declich, reporter del magazine online Globalist. Senza dimenticare il ruolo strategico del paese in sostegno dei ribelli libici, “fondando network come Libya Tv, voce del Consiglio nazionale di Bengasi, una sorta di Al Jazeera parallela”.

Nuovo mercato Il paradigma dello scontro di civiltà occidente/islam è ormai superato, ma non tutti sembrano essersene accorti. “C’è ancora paura che i fratelli musulmani siano oscurantisti. In realtà sono fautori del libero mercato, in Egitto hanno in programma privatizzazioni ed apertura ad investimenti esteri. È diventato più facile trattare con gli islamici moderati che non con i militari laici che rifiutando la globalizzazione sono stati artefici dell’implosione del sistema”. La nuova idea è la fondazione di “un’area commerciale comune islamica, paragonabile a quelle già esistenti, come nell’Unione Europea, ma con caratteristiche della propria tradizione, dal cibo halal alla manifattura”.

Una vignetta del quotidiano olandese Trouw, diffidente sul ruolo degli islamisti

Il punto della situazione un anno dopo Dai movimenti rivoluzionari la novità emersa è stata la salita al potere dei partiti islamisti, chiamati alla difficile prova di dimostrare di saper governare. Ma le caratteristiche che questi assumono nei diversi paesi sono varie. “In Tunisia Ennahda si richiama ai conservatori turchi, ma qui c’era già alle spalle un riformismo più avanzato sul welfare, diritti civili e delle donne”, spiega Silvia Colombo, dell’Istituto Affari Internazionali. Sulla situazione egiziana sorgono i maggiori punti di domanda, le elezioni sono state lunghe e complesse e i militari sono ancora al potere. “Solo dopo le presidenziali si capirà in che direzione andrà la transizione”. Caso a parte il Marocco, dove non c’è stato un cambiamento di regime ma le votazioni pluraliste sono state “calate dall’alto. Qui i fratelli musulmani e il loro partito Giustizia e sviluppo sono troppo legati alla monarchia, per questo godono di minore credibilità, già in precedenza facevano parte della coalizione di governo”. “A noi occidentali piacciono le etichette, con il nome ‘primavera araba’ abbiamo voluto creare un parallelismo con la caduta dei regimi comunisti”, chiude Mattia Toaldo. “Nell’est Europa paesi che hanno avuto una transizione più facile come l’Ungheria ora si trovano in condizioni di deficit democratico. Questa lezione fa capire che serve del tempo per valutare gli sviluppi e un banco di prova per tutti sarà la redazione delle nuove costituzioni, purché non siano progredite sulla carta ma vuote e distanti dalla vera politica, come in Iraq”.

Gabriele Santoro(15 marzo 2012)