Liberi in campo gli Afghani dello Sporting United

Il gruppo afghano

Sporting United, la squadra composta da rifugiati del centro d’accoglienza Enea che Rino di Costanzo è riuscito a tenere in piedi per tre anni, ha vinto giovedì 26 aprile la finale del campionato d’Eccellenza nonostante le carenze di fondi. Tra i giocatori un ventaglio variegato di nazionalità: Costa D’Avorio, Togo, Somalia, Guinea, Mali, Romania. Tutti accomunati dalla passione per il calcio. Tra di loro c’è anche un affiatato gruppo di ragazzi Afghani, che si sono raccontati così.

La squadra. Messa in piedi da tre anni, tra i più “anziani” del gruppo troviamo Feizi Mohamad, di 24 anni ed il ventitreenne Abdullatif Sharifi. “Nella squadra – spiega quest’ultimo – ci sono sette afghani di cui quasi tutti giocano in difesa”. “Io passo la palla e lui segna i goal” scherza Feizi indicando Shahram Dauoodzi che gli siede accanto. “Nella squadra – continua Abdullatif – ci sono tante nazionalità ma la lingua comune è l’italiano. Così chi non sa ancora parlare bene può fare pratica ma c’è sempre qualcuno della propria nazionalità per aiutare ad intendersi. Durante la partita possono esserci incomprensioni e si litiga, ma finita la competizione scherziamo negli spogliatoi su tutto quello che è successo in campo”. Al contrario dei pronostici la squadra è arrivata in finale. Nessuno di loro sa dire se c’è qualcosa in palio per i vincitori, il che dimostra che non è il risultato lo scopo del loro impegno. “Giochiamo per tante squadre – spiegano Shahram e Feizi – e partecipiamo a vari tornei. Ci alleniamo da sempre ed il calcio per noi è un momento per uscire dai problemi della vita quotidiana. Quando siamo in campo ci liberiamo dei pensieri: casa, lavoro, soldi, la nostalgia del paese e della famiglia. E’ questo il bello di giocare insieme”. E non manca neanche una dose di umiltà. “Siamo fortunati – dice Feizi – ad essere arrivati in finale” senza celare una nota d’orgoglio.

Sporting United. “Il nome della squadra – spiega il venticinquenne Mortaza Hussaini, da tutti riconosciuto come il “P.R” del team – lo abbiamo scelto insieme. Inizialmente ci chiamavamo Enea sporting club, dall’omonimo centro di seconda accoglienza dove ci siamo incontrati. Da quest’ultimo, devo dire, sono stato deluso. Durante le partite del torneo dell’anno scorso, nonostante i buoni risultati ottenuti, nessuno dello staff è venuto a supportarci. Né i tutor, né i capi, solo gli amici. All’inizio non avevamo nulla, neanche le divise. Quest’anno, senza sponsor, non saremmo stati in grado di partecipare, ma abbiamo pensato perché fermarsi, visto che avevano eletto due membri della nostra squadra miglior giocatore e miglior portiere? Senza contare che anche gli avversari ci facevano i complimenti. Allora stringendo i denti siamo andati avanti. Il torneo ci ha riconosciuto il merito e ci hanno “adottati”. Così abbiamo cambiato nome. Sporting, perché sport è una parola internazionale. United, perché nel calcio ci si integra tra stranieri, è un esempio che tra gente di diverse etnie e religioni non c’è solo guerra, ma anche vita e spirito di squadra”.

La casa, la strada, i permessi. Per coloro che affrontano il viaggio dall’Afghanistan e riescono a trovare rifugio politico in Italia il viaggio comincia da ragazzini e si conclude da adolescenti. “Ho lasciato il mio paese a 15 anni – spiega Feizi – e mi sono spostato in Iran, Pakistan, in India ho lavorato per mettere da parte un po’ di soldi e sono arrivato in Italia”. Ma perché proprio qui? “Io ho lasciato l’Afghanistan nel 2007 – racconta Shahram – e sono arrivato fino a Londra passando per l’Italia. Anche lì giocavo a calcio con gli amici, poi la polizia mi ha bloccato e mi hanno riportato qui. Infatti appena arrivi in Italia la questura, se sei sprovvisto di documenti, prende le tue impronte e ti fa firmare un foglio. Ma tu non sai leggere né parlare, non sai cosa stai firmando, ed in realtà stai accettando l’asilo politico in Italia”. Il che di fatto li obbliga a restare nel primo paese dove sono stati identificati. “Conosco un ragazzo – dice Feizi – che è stato per tre anni in Germania prima di essere riportato qui. Solo che ormai aveva imparato la lingua e non voleva tornare indietro. Anzi, pensava addirittura di tornare in Afghanistan piuttosto che restare qui”. I problemi principali per i titolari di protezione sono la casa, la formazione ed il lavoro. Adesso sanno che il nord Europa è aperto a politiche di maggior tutela per loro ma nel momento in cui vengono identificati il primo paese lascia un imprinting da cui è difficile sottrarsi. “Qui i centri di accoglienza – continua Feizi – vogliono che tu vada via dopo 6 mesi, senza specificare dove. Se non conosci nessuno, se non hai soldi per il biglietto del treno, se non hai lavoro, non sai davvero cosa fare del tuo tempo. Alla stazione Ostiense e a Termini è pieno di afghani che dormono per strada. Se qualcuno ci desse una mano per acquistare una indipendenza potremmo cavarcela da soli, trovare un affitto come ho fatto più volte quando potevo permettermelo. Fosse per me non starei in un dormitorio, con trenta persone di diverse nazionalità, chi fuma in stanza, chi accende la televisione, problemi per usare i pochi bagni. A queste condizioni anch’io ho preferito la strada”. “Io mi ritengo fortunato – racconta Abdullatif – essendo arrivato in Italia a 15 anni sono entrato in una casa famiglia e sono andato a scuola. Sapevo un po’ di inglese e leggere e scrivere in farsi, quindi ho avuto meno difficoltà ad inserirmi ed imparare l’italiano”.

La formazione, l’occupazione. “Trovare lavoro non è facile. Tralasciando i pregiudizi sulla nostra nazionalità ho spesso lasciato annunci su porta portese. Mi hanno risposto persone che cercavano “massaggi”. Sono anche arrivato fino a Latina per un lavoro saltuario di pulizie ma anche questa era un’offerta fuorviante. Ho fatto per un po’ il pizzaiolo, ma poi il locale ha chiuso. Ho lavorato anche in una fabbrica di calzature, cinture, sandali, ma non ho trovato un lavoro simile a Roma. Qui se arrivi e non conosci nessuno non si sa da dove iniziare. Se devi trovare casa, lavoro e formarti allo stesso tempo finisce che non riesci a fare niente”.”Io invece – dice Shahram – sono fabbro ed ho seguito un corso di saldatore. Adesso lavoriamo saltuariamente allo stadio Olimpico per vendere snacks sugli spalti, ma l’ambiente non è dei migliori ed il guadagno è misero, quattordici euro per noi ogni cento incassati”. “Alcuni miei amici – spiega Feizi – avevano una bancarella ma sono stati derubati di tutto quello che avevano. Hanno pensato di tornare per sempre in Afghanistan, nonostante abbiano paura a farlo. Molte persone qui sono stanche di lottare, sono stanche di testa”. Un po’ meglio è andata per Abdullatif, arrivato in Italia che era minore. “Finché sono stato nella casa famiglia sono riuscito a studiare. In un anno ho imparato bene l’italiano, il che mi ha aiutato a trovare lavoro. Non avendo mai lavorato mi sono aperto a tutto, dal benzinaio, al facchinaggio, all’installazione di computer. Quando sono arrivato al centro di seconda accoglienza Enea ho intravisto la possibilità di fare il mediatore culturale, che è la mia attività adesso”. Mortaza è invece qui dal 2007, da quando aveva 20 anni. Solito percorso, dall’Iran fino a Bari, Termini, Ostiense in sei mesi, da solo, con una tappa obbligata di due mesi in Grecia per guadagnare un po’. “Ho lavorato in un campo di cipolle e pomodori. Un lavoro bruttissimo. Passare tutto il giorno chini sui campi non lo auguro a nessuno. Adesso dopo vari stage e vari lavori, faccio il barman vicino San Pietro”.

La famiglia e l’Iran. Molti di loro hanno una famiglia in Iran. Feizi ha la madre ed una fidanzata, Abdullatif la famiglia, Mortaza i genitori, i 3 fratelli e 3 sorelle – di cui è il maggiore – e Shahram una moglie ed un figlio di 4 anni, Massud, che non vede da tre, . “Prima – spiegano Feizi e Shahram – i nostri paesi erano collegati da un “canale”, visto che in entrambi si parla farsi. Da un po’ di tempo però le cose non sono così. Vengono rilasciati soltanto dei visti turistici e c’è molta discriminazione verso gli afghani”. “Non solo – continua Abdullatif – ma non avendo documenti di identità, per un afghano non è possibile possedere niente. Ho da poco comprato un motorino, intestato a me, ma in Iran non è consentito. Un afghano non si può intestare neanche una scheda telefonica. Sono tornato a casa due anni fa, ma la situazione è peggiorata in questo senso”. “Ci sono afghani – dice Feizi – che sono in Iran da 30 anni e la loro situazione è uguale a chi arriva per la prima volta nel paese”. “Il governo ha cambiato politica – sottolinea Shahram – hanno aperto all’asilo politico per un periodo, ed ora quella finestra si è chiusa”. “In Afghanistan ci sono quattro etnie – spiega Mortaza – una delle quali condivide con l’iran la stessa lingua, religione e cultura. Perciò quando molta gente emigrava pensava, sbagliando, che in virtù di queste somiglianze sarebbero stati accolti. Pensa soltanto che il documento temporaneo che viene rilasciato ad un immigrato afghano in Iran è in plastica rigida ed è grande quanto la targa di una macchina. E va sempre portato con sé, ed esibito in caso di richiesta. Questo è un dispetto ed una mancanza di rispetto nei nostri confronti”.

Davide Bonaffini(26 Aprile 2012)