“Il Mediterraneo i romani l’avevano chiamato mare nostrum ed era una culla di civiltà dove si intessevano relazioni, dove c’era un confronto, un dialogo. La nostra povertà l’ha ridotto a un cimitero. Questo ci interpella e ci invita a riflettere su come accogliamo i rifugiati: tutti riconosciamo il diritto all’asilo, nessuno si preoccupa di come consentire a queste persone in tutta sicurezza di giungere in Italia e in Europa per esercitare tale diritto”. Così Giovanni La Manna, presidente del Centro Astalli, in apertura del convegno “Il mare unisce la terra non divida” organizzato giovedì 13 giugno presso la Pontificia Università Gregoriana di Roma in occasione della giornata mondiale del rifugiato che si celebrerà il prossimo 20 giugno. “Dobbiamo per creare canali umanitari sicuri e consentire alle persone di giungere in Italia senza diventare schiavi dei trafficanti. E una volta in Italia, una volta in Europa, queste persone devono incontrare un’opportunità per mantenere viva l’unica loro speranza che è quella di rimettersi in piedi”.
“Il mio impegno come sindaco di Roma Capitale parte proprio dall’idea di una città che torni a essere una comunità e per tornare a essere una comunità deve assolutamente partire dai più deboli”. Nel primo giorno del suo mandato Ignazio Marino tiene fede al proposito di “trascorrere una giornata ogni settimana a contatto con la gente, nei luoghi in cui le persone possano raccontare le criticità, ma anche illustrare quelle che loro pensano siano le soluzioni migliori per la nostra comunità”. “In Italia si parla troppo poco dei rifugiati, un problema strutturale e culturale del nostro tempo. Io vi assicuro che ci metterò tutto il mio impegno per farlo nel modo più rigoroso e più attento possibile e sono sicuro che questa città con la sua generosità, con la sua capacità di accoglienza, con la sua visione, diventerà un punto di riferimento morale sul tema dei rifugiati non solo nel nostro paese ma anche nel nostro continente”.Parole significative. A un anno da oggi, in occasione della giornata del rifugiato 2014, la prima verifica.
Per il ministro dell’integrazione Cécile Kyenge c’è bisogno di politiche che mettano al centro la persona: “Conoscere la storia dell’altro, partendo dal presupposto che un rifugiato è prima di tutto un cittadino, e fare delle leggi che riconoscano a ogni persona il diritto di ricominciare a vivere”. Il rapporto con il territorio, la collaborazione con le associazioni, il superamento della logica assistenzialista sono punti fondamentali per migliorare l’azione delle istituzioni. Sulla riforma della cittadinanza la posizione di Kyenge resta ferma: “Dobbiamo trovare un nuovo modello, abbiamo 5 milioni di cittadini di origine straniera e circa un milione di minori che rischiano di avere una crisi di identità e non possiamo stare a guardare senza far niente altrimenti siamo complici anche noi”.
“Dovremmo vergognarci delle politiche che abbiamo attuato in questi anni” dichiara Antonio Sciortino, Direttore di Famiglia Cristiana, criticando i provvedimenti “xenofobi, razzisti” che, in nome di una presunta sicurezza, “hanno costretto anche i nostri pescatori a violare quella legge universale per cui si salva chiunque sta per annegare. Noi li abbiamo obbligati a girare al largo dalle carrette del mare, per non essere tacciati del reato di concorso in clandestinità”. Sciortino ricorda come la politica dei respingimenti del febbraio 2012 sia stata condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo e ritiene innegabile una complicità dei mezzi di informazione: “Abbiamo alimentato le paure, enfatizzato ogni sbarco di una carretta del mare facendolo diventare un’emergenza. Abbiamo fatto passare con i nostri racconti falsi della realtà l’idea che gli stranieri venissero nel nostro paese quasi per un viaggio di piacere, ignorando che fuggivano e fuggono da situazioni di persecuzione, guerre, miseria, fame, disastri e catastrofi naturali”.
È possibile una ricostruzione del Mediterraneo come spazio di accoglienza? Per Hassan Abouyoub, Ambasciatore del Regno del Marocco in Italia, è in atto una evoluzione del modello di benessere europeo che sul lungo periodo porterà a una politica alternativa di integrazione regionale come condizione imprescindibile per sopravvivere. “Secondo uno studio dell’OCSE il PIL dell’Europa, che nel 2012 era pari a circa il 17% di quello mondiale, nel 2060 sarà al massimo il 9%. Questo significa che le sfide globali richiedono una risposta collettiva attraverso la condivisione dei valori di democrazia, libertà, rispetto degli ultimi”. Se non vuole scomparire il vecchio continente dovrà trasformarsi in un’Europa unita con una sovranità allargata e integrare la sponda sud del Mediterraneo: “E dunque cancellare il concetto di rifugiato che non avrà più ragione di esistere”.
Sandra Fratticci (20 giugno 2013)
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