Mario Benalcazar “per semplificare ho ridotto il mio nome, altrimenti, tra due nomi e due cognomi, non mi avrebbe ascoltato nessuno” dichiara il pragmatico ecuadoregno di 31 anni.
In Italia dal 2003, Mario è andato via dal suo Paese a causa dall’attività di denuncia che, dai 18 anni, aveva portato avanti in maniera assidua, temeva per la sua vita e per quella dei suoi cari “la mia maggiore preoccupazione era per la mia famiglia, allora le mie due sorelle erano piccole”.
I primi tempi in Italia è stato particolarmente difficile, soprattutto perché il riconoscimento dello status di rifugiato politico è arrivato dopo tre anni, un periodo di transizione che ricorda con molta durezza “ho fatto moltissimi lavori, ed appena ho ricevuto lo status di rifugiato mi sono iscritto all’Università poiché sono convinto dell’importanza della formazione, perché quella nessuno te la può togliere”.
A Tor Vergata Mario ha frequentato Biologia Molecolare, la triennale, con l’obiettivo di poter contribuire a trovare la cura per il cancro. Ma la dinamica defilata del laboratorio non appartenevano alla sua indole e perciò il master che ha scelto dopo andava in tutt’altra direzione: Manager e marketing farmaceutico. Grazie alla conoscenza di quattro tra le lingue più parlate al mondo, Mario ha trovato subito lavoro in un’azienda farmaceutica, con la quale, tra alti e bassi, ha lavorato per tre lunghi anni maturando una nuova consapevolezza. “Sono potuto partire dall’Ecuador grazie alla raccolta di soldi che un prete gesuita portò avanti per me. Prima che andassi via fu molto franco nel parlarmi e dirmi che sì, stavo partendo, ma che dovevo portare avanti una formazione di alto livello per poi tornare nel mio paese e contribuire al suo sviluppo”.
Infatti il fervore di Mario nasce praticamente con lui, quando, ancora bambino, a nove anni, ha iniziato a lavorare in una delle numerose fabbriche di scarpe che vedono un massiccio impiego di lavoro minorile, “anche a causa della rabbia accumulata quando ho avuto 18 anni come prima azione del gruppo nel quale c’eravamo organizzati, abbiamo bruciato la fabbrica nella quale avevamo lavorato. Un gesto estremo, che oggi non farei, meglio un processo, ha più eco.” La situazione ecuadoregna era particolarmente complessa negli anni della giovinezza di Mario e “pur essendoci un governo democraticamente eletto c’erano delle forze paramilitari, sostenute anche dalle aziende che avevano interessi economici in Ecuador, che reprimevano le opinioni dissidenti”. Numerose sono diventate le intimidazioni e le azioni violente, che sono culminate in un omicidio, e non solo. “Venivano sfigurati i cadaveri togliendo loro la pelle del volto, una cosa molto macabra, che voleva dire, a noi che restavamo, voi non siete nessuno”.
“L’Italia mi ha dato la possibilità di portare avanti una formazione” con la quale non intende fermarsi. “Vorrei ricominciare a studiare, economia questa volta, ed arrivare fino al dottorato, così da tornare nel mio paese come professionista di alto livello e contribuirne allo sviluppo”. D’altronde Raffael Correa, attuale presidente dell’Ecuador, ha una formazione economica e questo ha consentito al Paese di superare la recente crisi ed andare oltre la dichiarazione di default.
Mario ha le idee molto chiare anche per quanto riguarda la presenza ed il ruolo degli stranieri in Italia “come migranti penso che dobbiamo cambiare la nostra mentalità, non aspettandoci né chiedendo l’assistenzialismo allo Stato ma piuttosto conoscendo l’Italia per poterci inserire e diventare realmente produttivi. Penso sia una sorta di positivo sciovinismo”.
Grande è la sua curiosità nei confronti della cultura italiana “la suora che mi ha insegnato l’italiano mi ha parlato di tanti autori, come Machiavelli, e questo mi ha entusiasmato ed perciò ho deciso di continuare a studiare, affinché la mia formazione possa contribuire a due paesi, l’Ecuador e l’Italia, consentendomi di mantenere una doppia promessa, con il prete gesuita e con me stesso”.
Piera Francesca Mastantuono
(13 marzo 2014)
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