Samia ha vinto. La storia dell’atleta somala per la festa delle donne

Samia - Atleta somala
Samia – Atleta somala

Dieci secondi di distacco nei 200 metri, una delle gare regine dell’atletica leggera, sono un abisso, perché di solito si vince per millesimi di secondo. Sono una vergogna assoluta se poi sei alle Olimpiadi e il gruppo delle altre atlete è arrivato compatto, mentre tu sei ancora un rettilineo indietro. Ma nel 2008 alle olimpiadi di Pechino, accade qualcosa di diverso. La gara è terminata e c’è una vincitrice reale dei 200 metri, la giamaicana Veronica Campbell Brown, e una vincitrice morale Samia Yusuf Omar. I giornalisti, quel giorno, intervistano prima la Campbell e poi corrono da quella ragazza arrivata un abisso dopo. Per lei il pubblico dello stadio si alza in piedi. Non dirmi che hai Paura (Feltrinelli),  il libro di Giuseppe Catozzella, ci racconta la storia di Samia. “Una diciassettenne somala che, nelle gambe magre e gracilissime, nello scatto, immortala il riscatto di un paese – martoriato da una guerra fratricida – e delle donne musulmane” ci dice l’autore. Racconto triste, ma coraggioso, un sogno che si infrange prima di arrivare sulle coste italiane, passaggio obbligato per raggiungere Londra e partecipare alle olimpiadi del 2012. A Roma, l’8 marzo, per la festa delle donne, la Fondazione Nilde Iotti ha organizzato un evento per ricordare Samia. All’INMP (Istituto per la salute dei migranti e il contrasto delle malattie della povertà), in via di San Gallicano 25 alle ore 16.00, sarà presente l’autore del libro.

Samia si allena da quando ha sette anni nella sua Mogadiscio, schivando pallottole, posti di blocco, sfuggendo alla morsa degli integralisti islamici che le intimano di non vestirsi come un maschiaccio, ma mettersi i veli. Si allena con Ali, un ragazzo di una famiglia che condivide con lei la stessa abitazione. Eppure lui è un darod e lei una abgal, i clan in guerra da otto settimane prima che loro nascessero. Samia e Ali crescono sognando il mare, cui non ci si possono avvicinare perché le pallottole lì arrivano con più facilità. Ma Samia corre più veloce. A dieci anni vince la prima gara. “È Ali a chiamarla per la prima volta atleta – racconta Catozzella, che ha ricostruito la vita di Samia attraverso il racconto di una sorella che vive in Finlandia . Da quel momento inizierà a vincere tutte le gare e il comitato olimpico somalo le proporrà di allenarsi in vista delle olimpiadi della Cina nel 2008″.

Copertina Non dirmi che hai paura
Copertina Non dirmi che hai paura

E a Pechino Samia ci arriva. È lì “nel corridoio prima di entrare in pista. Si guarda allo specchio e si vede riflessa tra tutte le altre atlete. Loro sono muscolose, hanno tutine perfette, lei una semplice maglia bianca e la fascia tra i capelli, regalatale dal padre”, come se ancora stesse correndo per Mogadiscio. Lei è la Samia di sempre, quella ragazza che ha corso per anni con le scarpe del fratello, perché altre non ne aveva. Samia che non ha uno stadio in cui allenarsi a Mogadiscio. “Lo stadio più nuovo è divenuto il parcheggio per i mezzi di guerra. Quello vecchio è crivellato di colpi. Deve allenarsi di notte e quando la stretta degli integralisti di Al-Shabaad diventa più forte, deve anche indossare il burqa”. Ma lì, di fronte a quello specchio, Samia si guarda e non ha il burqa, forse anche di questo il mondo si accorge alla fine di quella gara dei 200 metri.

“Torna a casa pensando che qualcosa possa cambiare ed invece la stretta degli integralisti diventa più forte. Lei incarna il simbolo di ciò che non deve esistere, essere pubblicizzato: l’occidente. Lo sport è simbolo forte di quell’essere occidentali tanto avversato. Di contro però inizia a ricevere centinaia di lettere di donne che la ringraziano”. Samia sogna già i prossimi giochi olimpici, Londra 2012, perché l’unica cosa che sa fare è correre. Nel 2010 va in Etiopia ad allenarsi dove l’attende un nuovo allenatore. “Anche lì, senza documenti, vive da clandestina. Torna ad allenarsi di notte. La clandestinità intimorisce anche chi la allena e dopo sei mesi decide di fare il grande salto. Lasciare l’Etiopia e dirigersi verso l’Europa”. Inizierà da lì il suo viaggio. Dodici mesi e tre arresti prima di arrivare a Tripoli. Dalla Libia si dovrebbe far presto ad arrivare in Italia e da lì, qualche mese e dovrebbe essere a Londra. Sono passati quasi quattro anni da Pechino, le olimpiadi sono alle porte.

Samia sale prima su un gommone, che è costretto a fare ritorno in Libia. Poi su un barcone con circa trecento persone. Sono i primi giorni di aprile del 2012. Il barcone è in avaria, a largo di Lampedusa, per quindici ore. Arriva un’imbarcazione italiana, visto l’agitazione dei clandestini qualcuno lancia alcune cime in mare. Sette migranti si gettano in acqua. Samia è tra loro. “Samia ha sempre amato il mare, lo ha costeggiato allenandosi, ha desiderato toccarlo, ma mai vi era riuscita. Samia non sa nuotare. E il suo sogno finisce lì”.

Come a Pechino per Samia arriva una sconfitta, e questa è la sconfitta delle sconfitte, la morte. Eppure, come in Cina non è la sua rivale a vincere, come non aveva vinto la Campbell. Il mondo è in piedi per Samia, sia a Pechino, che nel giorno della sua morte. Alle olimpiadi di Londra un atleta somalo ricorda quella ragazza partita dal suo paese per andare a correre i 200 metri e morta nel mar mediterraneo. “Samia non ha perso – afferma Catozzella – la sua vita è all’insegna della libertà, del coraggio, ma soprattutto della rivincita delle donne non solo somale ma di tutte le donne musulmane. Una spinta a sfidare povertà e integralismi”. A vincere è la sua storia, il suo coraggio, che presto potrebbe diventare anche un film prodotto dal Leone Film Group, casa di produzione degli eredi di Sergio Leone, che punta a un progetto internazionale. Per questo molti spettatori continuano ad applaudire Samia, non solo nel giorno della festa delle donne.

Fabio Bellumore
(06 marzo 2014)