Hind Rajil nasce in Marocco nel 1989 ma vive in Italia da quando ha 5 anni. Oltre a studiare Lingue, Culture, Letterature e Traduzione all’università lavora come mediatrice culturale, interprete e traduttrice, collaborando anche con l’ambasciata libica nell’ambito del commercio internazionale. In più sarà membro della giuria Piuculture nell’ambito del Medfilm Festival, tradizionale appuntamento condiviso fra Casa del Cinema e MaXXI che dal 4 al 13 luglio presenterà la sua ventesima edizione.
La vera passione di Hind è l’arte sotto ogni forma, tanto da aver iniziato l’Accademia di Costume e di Moda prima di cambiare radicalmente percorso professionale, ma più in un’ottica di mezzo che di fine. “La conoscenza delle lingue è un modo per aprire tutte le porte” permettendo di viaggiare – l’altro grande interesse di Hind – e di inserirsi più facilmente in ogni realtà in cui ci si imbatte.
“Ho girato molto, sia per piacere che per capire dove voler andare a vivere. Sto pensando alla Spagna, anche se in crisi. Ma se si ha chiara l’idea di cosa fare è già un buon bagaglio per la partenza”. Nella penisola iberica Hind ha già trascorso un periodo di studio, “lì la gente è felice con poco, le giornate durano di più”, poi c’è la vicinanza con il suo Marocco, “punto a tornarci, prima o poi sono sicura che lo farò. Però mi adatterei anche ad Oslo”.
L’imperativo è via da qui, “amo Roma, mi trovo bene, motivo per cui ancora non me ne sono andata, ma è lenta, non garantisce un futuro né permette di fare progetti. Ti fa vivere alla giornata, lavori lavori e poi non ti resta tempo libero di cui godere”. Il sogno è quello di aprire un laboratorio artigianale per produzioni di vario genere, “in altri paesi è tutto più rapido, qua ci vogliono tanti soldi e la burocrazia è troppo complicata”.
Nel frattempo, come detto, ci sarà l’esperienza con la giuria Piuculture, “sono felice di questo, andrei al cinema tutti i giorni. Mentre guardo poco la tv, non per snobismo ma perché l’offerta è scarsa e ho poco tempo”. Che il cinema italiano non stia vivendo un gran momento è noto, la vittoria de La grande bellezza di Sorrentino agli Academy Awards ha spezzato una tendenza negativa, anche se in realtà il potenziale ci sarebbe: “ci sono bravi attori e registi emergenti che però spesso iniziano bene e finiscono per rovinarsi” una volta che aderiscono alla mera logica di mercato. “Stiamo scivolando nella banalità, la maggior parte delle volte cominci a vedere un film e sai già come finirà”.
Un certo Quentin Tarantino, più o meno contemporaneamente all’uscita di Django Unchained, mosse una critica partendo dalla perdita della capacità di inventare storie in Italia, “è vero, mi piace quando il finale ti lascia il dubbio se il soggetto sia perso dalla realtà o totale finzione”. Forse da inventori del neorealismo siamo rimasti troppo legati al genere ma senza riuscire a replicare la qualità dei Visconti, De Sica, Rossellini, Germi, Antonioni.
Da qualche anno è invece in crescita il cinema dei paesi arabi – per generalizzare, in realtà le differenze fra Stato e Stato ci sono. “Tunisia, Marocco, Siria hanno registi interessanti. Da noi non si poteva pensare di rappresentare qualcosa che desse fastidio alla monarchia, adesso si osa di più”. Un esempio è Casanegra di Nour-Eddine Lakhmari, sui problemi dei giovani ventenni e trentenni del Maghreb. Addirittura è stato rotto il tabu dell’omosessualità, anche se da parte di un regista che vive a Parigi, Abdellah Taïa. “Però abbiamo un movimento per i diritti degli omosessuali, chiamato kif kif, cioè uguale, anche la situazione delle donne sta progredendo. Siamo sempre stati i più vicini all’Europa, non solo geograficamente”.
Ancora qualche ostacolo nella distribuzione interna c’è, non è facile trovare in televisione pellicole dai temi “rivoluzionari”, ma nei cinema la visione non risente di ostracismi. Un altro esempio è Marock di Laïla Marrakchi, sulla gioventù alto borghese di Casablanca, in cui diverse regole vengono infrante, a partire dell’amore di una delle protagoniste con un ebreo – quasi impensabile in un paese islamico.
“Il vero problema, come esposto da Ghita El Khayat, scrittrice che si occupa anche dell’approvazione dei finanziamenti pubblici all’industria del grande schermo, sono gli sprechi. Chi riceve i soldi del governo cerca di risparmiare sul budget per intascare il resto. Solo da poco anche i privati investono nel settore”. Giro economico che coinvolge anche le strutture, “molti cinema stanno riaprendo dopo anni di chiusura, con le forze di movimenti, delle reti di appassionati e addetti ai lavori”.
La tradizione è importante, basti pensare che presso gli Atlas Film Studios, i più grandi dell’Africa, sono stati girati classici come Lawrence d’Arabia, Te nel deserto, Il gladiatore, L’uomo che volle farsi re. “Le commedie tipiche erano sul quotidiano delle famiglie”, ma si è sempre strizzato l’occhio all’estero, in particolare India, Egitto, Francia, ma anche Stati Uniti e Italia, “se nomini un Fellini o un Bellocchio tutti lo conoscono”. È cambiato il sistema di doppiaggio, dall’arabo ufficiale si è passati ai dialetti nazionali, “era anche un modo per insegnare la lingua corretta, così non c’è più arricchimento, sembra che si voglia mantenere lo status quo”.
Le possibilità di carriera in patria ci sarebbero anche, “ho pensato di lavorare per il canale 2M, cercano sempre chi ha studiato o ha fatto esperienze all’estero, a contatto con altre culture. È un bagaglio apprezzato”. Le premesse ci sono, come si direbbe nella Roma che forse presto sarà un ricordo, hai visto mai…
Gabriele Santoro(19 giugno 2014)
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