Viaggio tra gli expat: quando ad emigrare siamo noi – Prima parte

Saint-Etienne, Place Jean Jaurès. Una delle foto scattate da Nicole  Baio durante la sua permanenza in Francia.
Saint-Etienne, Place Jean Jaurès. Una delle foto scattate da Nicole durante la sua permanenza in Francia.

Li chiamano “expat”, o “cervelli in fuga”: un altro modo per dire “emigrati”, solo un po’ più snob. Riempiono le rubriche dei giornali, i forum della Rete, le università estere e gli appartamenti in affitto delle principali capitali mondiali, portando forza lavoro manuale o intellettuale in patrie lontane dalla propria. Sono per lo più giovani e partono più o meno come fecero i loro nonni, ma senza valigia di cartone. A volte vincono borse di studio che usano come trampolino di lancio per una nuova vita, altre volte partono alla ventura, inseguendo un sogno. Soffrono di nostalgia, ma in tanti pronunciano la stessa frase: “in Italia non ci tornerei mai“.

Va di moda parlarne, spesso come pretesto per spostare il focus sulla (mala) gestione del Bel Paese. Eppure sono in tanti: 4.482.115 italiani residenti all’estero iscritti all’AIRE dal gennaio 2014. E tanti, tanti in più i non iscritti. Si è stimato che dal 2008 al 2014 sia stato di 23 miliardi di euro il patrimonio volato via dall’Italia per finire direttamente nelle casse di un non meglio precisato “estero”. Europa, certo, ma anche America, e a scendere Oceania, Africa, Asia (dati Istat 2012).

Dopo essere partiti, qualcuno torna, ma tanti restano. “La possibilità di tornare l’avrei tutti i giorni, nessuno ci lega qui”, dice Laura, che a Parigi vive ormai da tre anni, “ma non so se tornerò in Italia”. C’è chi parte per scelta, chi per caso: “ho fatto domanda al MIUR come assistente di lingua italiana in Europa, pensando che sette mesi in Francia avrebbero potuto essere un’esperienza interessante”, racconta Nicole, che dal quel settembre 2012 vive a Saint-Etienne, a 60 km da Lione, e che, per ora, non ha intenzione di tornare: “oggi avere un posto di lavoro è fondamentale, e non lascia troppo spazio alla nostalgia di casa”.

“L’insegnamento è sempre stato il mondo del lavoro in cui avrei voluto entrare, ma la situazione in Italia era (ed è tuttora) abbastanza stagnante”, racconta ancora Nicole, che da quel tirocinio è passata a una professione retribuita: oggi insegna Italiano ed Inglese a studenti di diversa età e tipologia, fra esami scritti, progetti di gruppo e verifiche continue. Un metodo molto più pratico di quello usato nella scuola italiana, ma che sulla teoria, confessa, “ha le sue lacune”.

parigi
La Tour Eiffel, in una foto scattata da Laura

Non è un caso che molte partenze inizino con programmi europei o ministeriali per l’insegnamento della lingua italiana all’estero. L’Università crea il ponte, e il resto viene da sé. Anche Laura ha iniziato così, ma in Corsica: “ci sono rimasta nove mesi, poi sono rientrata a Roma. Avevo intenzione di restarci, avevo anche fatto dei colloqui che promettevano bene, ma non sono andati a buon fine”. A quel punto è il programma MAE-CRUI che le viene in soccorso: tre mesi all’Istituto di cultura italiana di Parigi, dove sviluppa buoni contatti e inizia a dare lezioni di italiano “a ricche signore della Rive Gauche, un architetto in partenza per l’Italia, ragazzi che dovevano dare l’esame di italiano per la maturità…” e il resto della varia umanità parigina interessata alla lingua di Dante. Poi, ad un tratto, arriva uno stage, questa volta pagato, che si trasforma prima in un contratto a tempo determinato, poi indeterminato. Da qui, a tempo indeterminato anche lei, la decisione di farsi adottare da Parigi, che pure aveva evitato a lungo: “sapevo che se ci fossi tornata non me ne sarei più andata”.

“Parigi è quasi tutta italiana, specie nei quartieri ricchi come il VII arrondissement”, racconta Laura, che di cliché ne incontra spesso: “la donna italiana generalmente è quella che sa cucinare divinamente e cerca marito, l’uomo è il classico macho. Ma nessuna discriminazione palese: anzi, a volte usano lo stereotipo proprio per attaccare bottone”. I veri problemi sono altri: “la casa su tutti: i prezzi sono proibitivi, e per un contratto d’affitto si deve dimostrare di possedere un reddito pari a tre volte il valore dell’appartamento, oppure presentare un garante che sia imponibile in Francia”. Non un genitore, quindi, ma spesso il datore di lavoro: certo, “non tutte le aziende sono disposte a fare da garante, specie quelle piccole”. Nicole l’alloggio lo ha invece cercato dall’Italia, una residenza universitaria prima e poi una casa una volta sul posto. La burocrazia è stata ostica anche oltralpe, ma “ho sempre trovato persone disponibili e disposte ad aiutarmi”. A Saint-Etienne Nicole ha ormai costruito il suo piccolo entourage autoctono, “che mi rassicura anche a 1000 km da casa”, senza mai farla sentire discriminata: “se esiste un’immigrazione di serie A e una di serie B, la frontiera è l’Europa occidentale. In Francia il problema è soprattutto verso l’immigrazione maghrebina”.

Per sopportare una vita lontano dagli affetti, le strade per gli expat sono due: crearsi altri affetti e raccontare il proprio mondo. Laura e Nicole fanno entrambe le cose, e mentre vivono gli angoli della loro (nuova) casa, la descrivono anche un po’ a chi non la conosce: Laura col suo blog, Learn Lola Learn, Nicole fotografando ogni angolo della città (e non solo). Rientrano in Italia ogni tanto, meno che all’inizio, ma sempre “senza biglietto di ritorno”. E cercano, in fondo, qualcosa di estremamente semplice, che Nicole riassume così: “una stabilità che mi permetta di vivere come tutti dovrebbero avere il diritto di vivere”.

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Veronica Adriani
(6 maggio 2015)