Ibrahim, operatore al centro Baobab: una cosa sola veniamo a rubarvi, la pace

Centro Baobab
Foto di Adamo Banelli

Con un cenno del capo Ibrahim fa segno di mantenere l’ordine a un gruppo di ragazzini. Immediatamente smettono di spingersi e di giocare tra di loro. Ha una forte autorità nel suo sguardo severo e deciso. Non è la sua stazza a incutere timore. Dopo l’emergenza dell’ultimo periodo, in cui il Centro Baobab ha ospitato fino a 700 migranti, in via Cupa si è ristabilito l’equilibrio. Oggi i migranti sono circa 100 e ci sarebbe ancora posto per qualcun altro.

Ibrahim è addetto alla sicurezza e presidia costantemente l’ingresso, ad un occhio distratto si confonde tra i migranti. Ma lui, a differenza di tutti gli altri che continuano a viaggiare, al Baobab ci è rimasto: è un dipendente della struttura da 3 anni. “Appena arrivi in un paese diverso dal tuo hai la testa vuota”, dice.

È arrivato dal Niger il 29 marzo 2009, scandisce bene giorno, mese, anno. Lo dice chiaro, come è chiaro nella sua memoria. L’Europa è una terra promessa, ma una volta raggiunta si fanno i conti con la realtà. E Ibrahima lo sa bene. “Appena ho messo piede a Lampedusa sono stato felice, poi no. La prima cosa che trovi è una schiera di militari, carabinieri, polizia. Tutte le guardie ti toccano, poi ti portano in un centro e anche lì trovi solo forze dell’ordine. E pensi: cos’è? Una guerra?”.

Il primo periodo in Italia l’ha trascorso in un centro di accoglienza, a Crotone. “Poi un avvocato ha esaminato la mia testimonianza, pagine di racconti, e così ho ottenuto un permesso di soggiorno per motivi umanitari a Roma”. Spiega precisamente tutti gli spostamenti che ha fatto nel paese di destinazione, parla volentieri. Ma quello che c’è scritto nei documenti Ibrahim non vuole ripeterlo: punta un “no” secco. Soltanto raccontando d’altro fa capire che, alle spalle, si è lasciato l’inferno.

“Arrivato a Roma ho dormito in un giardino vicino al Colosseo per un mese”, continua. “Poi qualcuno mi ha detto che in Campania avrei trovato lavoro, più che a Roma. A Napoli mi sono rivolto alla Caritas e lì non c’erano posti per dormire, sono stato due settimane e poi sono partito per Rosarno. Sono andato a raccogliere le arance, volevo lavorare. Ma a Gennaio 2010 è scoppiata la rivolta, e a Febbraio sono tornato a Roma. Perché qui ero venuto a cercare un po’ di pace”.

Nella capitale si è dato da fare: ha studiato italiano, poi ha concluso le scuole medie e ha preso la licenza di operatore addetto al controllo. “Trovare lavoro è un disastro, ho fatto quello che capitava: dal muratore all’attore in uno spettacolo alle Terme di Caracalla. Era la storia di una principessa africana e servivano dei neri”, sorride.

Al Baobab è arrivato come gli altri migranti: cercava un posto letto. “Il coordinatore del centro si è accorto che non bastava per me una prima accoglienza, avevo bisogno di qualcosa di più: un lavoro, ad esempio. Mi ha chiesto di occuparmi delle pulizie, ma non potevo. L’odore dei detersivi mi fa male, dopo Rosarno ho avuto la Tubercolosi e ho i bronchi affaticati, gli ho proposto di fare l’addetto alla sicurezza”.

Per uno come Ibrahim quello al centro non è un lavoro qualunque. “Se sei forte ce la fai, se no no. Ma puoi anche diventare forte. Quando stai bene, come me adesso, di fronte alle difficoltà degli altri devi pensare di fare qualcosa di positivo per loro. A volte mi improvviso anche comico per strappare qualche sorriso. È chi mi dice ‘grazie’ che mi rende più forte”.

“I ragazzi che ospitiamo hanno paura della polizia, non oltrepassano Via Cupa. Spesso arrivano le volanti e ci dicono che c’è troppa gente in strada, ma loro vogliono solo stare un po’ in tranquillità. Tutto quello che hanno vissuto l’ho vissuto anch’io. A quelli che guardano i migranti con sospetto vorrei chiedere: di cosa avete paura? Che vi rubino la pace?”.

Ibrahim ha trent’anni, a sentirlo parlare, idee chiare e determinazione, sembra che abbia raggiunto la destinazione di una vita tranquilla. E invece con una frase demolisce tutto: “ Al mio paese non ho studiato, diversamente dai miei fratelli, che ora hanno un futuro e una famiglia. Ero la pecora nera. E dopo sei anni trascorsi qui sento di vivere ancora in clandestinità. Che futuro posso immaginare se ogni anno devo chiedere e sperare che mi rinnovino il permesso di soggiorno?”.

Rosy D’Elia
(15 luglio 2015)

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