Io, italo vietnamita nata grazie ai pirati e alle ceramiche italiane

Ngoc Lan ha 25 anni e vive a Roma. Racconta cosa significa essere una giovane italo vietnamita
Ngoc Lan ha 25 anni e vive a Roma. Racconta cosa significa essere una giovane italo vietnamita

“In redazione sono Ngoc, solo mia madre mi chiama Francesca”. Venticinque anni, un entusiasmo dirompente e una curiosità vivace che la porta a spaziare tra mille passioni: ha studiato danza, canto, batteria, è laureata in linguistica, cura la sezione diritti, cultura e società del blog Mangiatori di cervello, è una fotografa e un’aspirante neurochirurgo. Ngoc è una che non si tira indietro, ti racconta con affetto una storia intima e particolarissima: quella che ha fatto di lei una ragazza italo vietnamita.

Un articolo che racconta il salvataggio dei giovani vietnamiti tra i quali c'è il papà di Ngoc
Un articolo che racconta il salvataggio dei giovani vietnamiti tra i quali c’è il papà di Ngoc

Il 30 aprile 1975, dopo 15 anni di combattimenti e oltre 3 milioni di vittime, si conclude la guerra Vietnam, che ha visto contrapposti il Vietnam del Nord, di matrice filo-comunista e l’esercito del Vietnam del Sud, appoggiato dagli Stati Uniti. Quattro anni dopo il papà di Ngoc, appena diciottenne, diventa un boat people: “La sua era una famiglia abbiente di Saigon, ma dopo la guerra la povertà si faceva sentire, così mia nonna è stata costretta a spedire tre dei cinque figli in mare, pagando un chilo d’oro per ciascuno ai trafficanti”. Un mese e mezzo su imbarcazioni di fortuna, che Ngoc racconta in un articolo scritto con l’aiuto della zia: ci sono le tempeste e i pirati che li salvano portandoli nei centri di accoglienza, ma lì non li vogliono e li rispediscono in mare. Ci sono le navi internazionali che non si fermano. C’è chi cade in acqua ma riesce a salvarsi e chi per una frattura alla gamba muore durante il viaggio. Quando ormai sembra tutto perduto arrivano gli incrociatori militari italiani: “Li hanno portati a Venezia e da lì sistemati in varie destinazioni. Mio padre, mio zio e mia zia sono stati accolti a Verona nella parrocchia di Don Mario, che per me è una sorta di nonno”.

Gli abitanti del paesino si stringono attorno ai ragazzi e li aiutano anche economicamente, il papà di Ngoc ha la possibilità di studiare e diventa ceramista. È così che conosce sua madre: “Lei era una di quelle scapestratelle figlie dei fiori, nata da una romana doc e da un pugliese verace, cresciuta in una situazione rigida e uscita di casa a 16 anni. Voleva imparare a lavorare la ceramica e l’hanno indirizzata nello studio di mio padre”. Quando Ngoc ha tre anni i genitori si separano: “È rimasto un grande affetto, ancora oggi ogni volta che si sentono piangono, ma secondo me erano solo grandi amici”. Ngoc cresce e i suoi occhi sono troppo orientali per una realtà così piccola: “Sebbene mio padre fosse rispettato io ero la figlia del cinese, quella scelta per ultima alle partite di pallavolo, alla quale i maschietti mandavano i bigliettini di nascosto perché nessuno doveva sapere”. All’età di tredici anni si trasferisce a Roma con la madre e qui le cose vanno meglio: “Ricordo ancora che il primo giorno di liceo una ragazza scandiva le parole parlandomi. Non capivo il perché finché mi ha chiesto da-quanto-tempo-sei-in-Italia? È rimasta sbalordita dal mio accento trasteverino e da allora siamo diventate grandi amiche”.

Nel frattempo però suo padre decide di tornare in Vietnam: “Se n’è andato nel giro di due mesi e da quel momento ho vissuto una sorta di rifiuto verso le mie origini vietnamite”. Passano sette anni, Ngoc cresce e inizia a vedere papà non più come un eroe ma come un essere umano con le sue emozioni e debolezze: “Ho preso il primo aereo della mia vita e sono andata ad incontrarlo. È stato difficile per entrambi”. Ritrova suo padre, conosce la nuova moglie e le due sorelline e entra in contatto per la prima volta con una parte di sé che non aveva mai conosciuto.

Oggi Ngoc studia la lingua vietnamita e pensa che i travagli interiori che ha dovuto affrontare siano stati una fortuna: “Ho conosciuto ragazzi che hanno avuto diverse origini ma abbiamo tutti in comune una maggiore sensibilità verso il prossimo. Secondo me nasce dal fatto che i tuoi genitori sono obbligati a confrontarsi continuamente con le le differenze culturali e ti trasmettono la capacità di apprezzarle e crescere con molti meno pregiudizi”. Con i pregiudizi degli altri invece fa ancora i conti: “Quando invio curriculum mi rendo conto che vedere un cognome straniero dà fastidio. Capita anche di ricevere commenti razzisti ai miei articoli, del tipo ‘torna nel tuo paese’. Li trovo ridicoli, è come se cercassero di colpirmi nel punto in cui secondo loro sarei più debole”. E lei va avanti per la sua strada, con la fresca convinzione che anche a novant’anni sia possibile rimettere tutto in discussione: “Magari aprirò un ristorante in Vietnam, ci ho anche pensato”.

Sandra Fratticci(23 settembre 2015)

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