I migranti della Tendopoli Tiburtina: verso l’Europa passando per l’inferno

Tendopoli tiburtina
Fotografie di Adamo Banelli

Appena fuori dalla stazione tiburtina si intravedono i colori dell’emergenza: il blu delle tende, il bianco e il rosso della Croce Rossa Italiana, il verde dei militari. Fa contrasto sulla rete di recinzione della tendopoli un fiocco rosa, ad indicare che da una madre eritrea è nata Lisa. È segno della buona volontà di rendere l’ambiente familiare, un’impresa ardua per un complesso di tende su uno sterrato.

È domenica 11 ottobre e su Roma è tornato il sole dopo 24 ore di pioggia: ci sono ancora enormi pozzanghere e l’acqua si è infiltrata dappertutto. Ma il campo ha le ore contate, gli operatori hanno già cominciato a smontare alcune strutture: i migranti saranno trasferiti nell’edificio di via del Frantoio. Sarebbe troppo difficile affrontare l’inverno in tenda anche se gli ospiti hanno a disposizione tutto quello che serve: dal cibo all’assistenza medica.

Tendopoli tiburtina

“Sono qui da 5 giorni e mi trovo bene, ricevo le cure adeguate e tutto quello di cui ho bisogno”, dice Haimanot che ha avuto la febbre a 40. “Durante il viaggio non percepisci nulla, poi quando arrivi e ti rilassi le difese immunitarie crollano”, spiega Adam, mediatore culturale.

Haimanot è uno studente al terzo anno di economia: “Sono venuto in Europa in cerca dell’umanità e della libertà. Le ragioni per cui sono partito dall’Eritrea sono tre: la politica, le esigenze economiche e la mancanza di futuro”.

Il viaggio è durato 9 mesi: “domenica scorsa ero ancora in Libia, martedì pomeriggio una nave ha recuperato la barca in cui viaggiavo e sono arrivato a Reggio Calabria”.

Treno dopo treno, ha risalito la penisola passando per Napoli e arrivando a Roma. Parla del viaggio in mare con tranquillità: “il tratto più terribile è stato nel deserto libico, mi dimenticavo anche della fame. Poi ad un certo punto mi hanno arrestato i militari dell’ISIS, tendono delle imboscate ai migranti, ti rapiscono e se non paghi, vieni ucciso. Io ho pagato 6000 dollari per essere liberato”.

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Trafficanti e militari dispongono della vita di chi si mette in viaggio. È un business di giovani malviventi, ma anche dei corpi statali per cui i migranti sono una miniera. Il prezzo per chi si allontana dal proprio paese di origine è caro, e si paga in termini umani, economici e fisici, sempre più salato, confine dopo confine. E per le donne è ancora più alto.

Miriam e Selam sembrano inseparabili, hanno 18 anni e sono partite quando ancora non erano maggiorenni. Insieme hanno fatto il viaggio in mare e sono arrivate a Catania 5 giorni fa. Parlano bene dell’accoglienza italiana, mentre sintetizzano il viaggio con un aggettivo: “brutto”.

Poi una di loro approfondisce, il deserto è stata la parte peggiore: “la macchina si è fermata in mezzo al niente per 3 giorni. Quando ci siamo spostati per vedere se ci fosse qualcuno abbiamo scoperto un’altra jeep poco più avanti, c’erano circa 25 persone, tutte morte. Quando finisce l’acqua, finisce tutto”. Loro ce l’hanno fatta perché è arrivata in tempo un’altra macchina di trafficanti a soccorrerli. “In quella zona hanno interesse che tutto vada liscio con le jeep, i trafficanti che organizzano questi viaggi sono come delle grandi agenzie di viaggi e vogliono che di loro si parli bene”, ci spiega Adam.

Si tengono le mani Miriam e Selam, si stringono e rivelano a poco a poco il senso profondo di quel “brutto” riferito al viaggio. “Al confine con la Libia c’è un campo di soldatisudanesi: gli uomini li lasciano andare, tutte le donnevengono trattenute e stuprate. E se vuoi proseguire, devi pagare anche 300 dollari”.
Tendopoli tiburtina

Le due ragazze lo raccontano non come una sventura ma come la normalità. Accade e non potrebbe essere altrimenti. Come accade di essere arrestati in Libia, proprio quando lo sguardo è già in Europa e i piedi quasi sulla barca.

“In Libia mi hanno arrestato 5 volte, diventi come uno schiavo, se puoi pagare, ti liberano. Altrimenti puoi provare a evadere e se ci riesci devi ritenerti fortunato perché ti sparano addosso”, racconta Hosman, 20 anni. ”Sono tanti quelli che muoiono nelle carceri libiche: subisci minacce, violenze, torture. Ero diventato magro come questo dito”, e indica il suo mignolo. “Non esiste alternativa all’Europa, nel viaggio sono passato da un inferno all’altro”.

Ha due priorità per il futuro: studiare e raccontare la situazione eritrea. “Il mio paese è come un luogo isolato, in cui non c’è internet, non ci sono diritti, non c’è la costituzione, c’è solo un dittatore. I sogni sono tanti ma voglio valutare cosa sia meglio per me. Fino ad ora non avevo una vita stabile per capire come funzionasse il mondo, sono stato troppo tempo in carcere”.

Spera che per l’Eritrea arrivi il tempo della democrazia, “ma non è possibile che accada dall’oggi al domani”, dice. “Sarebbe bello un giorno poter ritornare. La vita è tosta senza gli affetti”.

Tendopoli tiburtina

Mentre Hosman parla, nel recinto della tendopoli qualcuno stende i panni, qualcun altro gioca a biliardino, i bambini vanno in bici. Si tenta un’ostinata normalità, mentre la vita quotidiana, quella vera, continua ad essere in stand by: “Ma l’attesa è necessaria per andare avanti”, conclude.

Hosman, come Haimanot, spera di poter essere ricollocato in un paese nordeuropeo grazie al nuovo programma per i cittadini dei paesi che hanno una percentuale media di riconoscimento del diritto di asilo pari o superiore al 75%, secondo le stime EUROSTAT.

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Ma tra gli ospiti c’è anche chi riprende fiato ed energia per continuare il viaggio frontiera dopo frontiera. In una tenda incontriamo un gruppo di ragazzi afghani, hanno tutti tra i 20 e i 25 anni, sono arrivati in Italia da una settimana. Hanno fatto buona parte del tragitto a piedi e alcuni di loro sono stati 6 mesi in prigione in Grecia perché non avevano i documenti. “I Greci non sono come gli italiani”, dice Ahmad, mostra le immagini di una ferita e continua: “ho chiesto ai poliziotti di curarmi e loro mi hanno detto che dovevo pagare per avere un dottore”.

Un altro racconta che da Patrasso è arrivato in Italia nascosto sotto un camion: “Tre giorni, senza mangiare né bere. Ero un soldato in Afghanistan: i talebani non si curano di nessuno, ammazzano donne e bambini come se niente fosse, ne ho visti tanti morire sotto i miei occhi e volevano uccidere anche me”.

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Quando parlano della vita prima della partenza sintetizzano tutto in due parole: “Afghanistan-war”. E ricordano che non c’è quotidianità possibile dove c’è la guerra.

Ahmed e i suoi amici continueranno il viaggio verso il nord senza nessuna speranza di essere ricollocati, saranno ancora camminatori instancabili in un’Europa che misura la disperazione in percentuale e decide che, in certi casi, non è abbastanza.

Rosy D’Elia
Fotografie di Adamo Banelli
(14 ottobre 2015)

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