Una lingua per i rifugiati.Riflessioni al seminario di Scuolemigranti

Liberi Nantes, fonte: www.scuolemigranti.org
Liberi Nantes, fonte: www.scuolemigranti.org

Una sola lingua, mille persone diverse: è questa la sfida che attende ogni giorno chi insegna l’italiano ai rifugiati. Dunque cosa insegnare? E soprattutto come? Sono due degli interrogativi più importanti sollevati durante il seminario del 7 marzo scorso, organizzato da Scuolemigranti dal titolo emblematico “Formazione linguistica dei rifugiati. Esperienze in rete”. L’incontro ha illustrato, attraverso un approccio multiforme e sfaccettato, le nuove difficoltà nell’apprendimento della lingua italiana da parte dei rifugiati.

La precisazione semantica non è una sottigliezza, spiega Carla Diddi, Caritas Roma: “parlare di migranti rende tutto più difficile, facendo associare immediatamente il termine al concetto di invasione. La parola rifugiato richiama un grave deterioramento della vita umana e soprattutto rimanda a un quadro geopolitico preoccupante”. Ma anche un’inconsapevolezza delle azioni: “Il rifugiato, a differenza del migrante economico, non sa dove sta andando: ad un massimo movimento territoriale non si affianca un progetto di vita.”

La differenza tra “immigrato e rifugiato è una differenza esistenziale”, sottolinea Maria Grossi, associazione Insieme Immigrati Formia: i ragazzi che arrivano da loro hanno tra i 19 e i 35 anni, “l’età fisiologica della progettazione”, nella quale, in condizioni normali è il futuro ad essere l’obiettivo principale. Per un rifugiato non esiste passato, né tantomeno futuro, ma solo un presente difficile, ostile e precario. L’apprendimento della lingua italiana può quindi rappresentare un filo di speranza, il recupero di un’idea, di una struttura in grado di sostenere la quotidianità: ma quale lingua? Certamente, sottolinea Diddi, occorre insegnare una “lingua pratica”, che accompagni la “vita ordinaria di chi la apprende”: ma, è altrettanto necessario l’insegnamento di una “lingua più profonda”, in grado di potersi far carico della “rielaborazione del vissuto”, spesso traumatico.

La ricostruzione dell’identità psicologica e sociale deve passare attraverso lo studio della lingua. Non basta apprendere le nozioni base, ma occorrono sempre più figure professionalizzate, in grado di porre fine, seppur parzialmente, alla situazione di sospensione dalla vita nella quale si trovano i rifugiati. Cecilia De Chiara operatrice del centro Astalli, ricorda l’importanza non solo dell’ insegnante, ma anche del tutor, “un operatore qualificato, in grado di accompagnarli nel loro percorso di apprendimento all’interno della scuola”: un punto di riferimento, che sostituisca, momentaneamente e parzialmente le istituzioni sociali d’origine. Il trauma della perdita della propria casa e soprattutto della propria identità, deve passare attraverso la lingua che diventa un luogo più che un mezzo: “bisogna abitare una lingua, non un paese”, ricorda Diddi, attraverso una metodologia specifica che si deve rifare alla “pedagogia della speranza teorizzata da Freire, e all’apprendimento di quelle parole generatrici, alla base del lavoro di alfabetizzazione”.

Un altro problema significativo, riguarda il fattore tempo: come sottolinea Elvira VentoArci Civitavecchia, “la condizione del rifugiato è una condizione di incertezza, dovuta a tempi molto lunghi di attesa per ottenere lo status di rifugiato, a causa della burocrazia. Tutto ciò porta la maggior parte di loro ad avere un calo d’interesse nei confronti dei corsi d’italiano dopo l’iniziale momento di partecipazione”. La concentrazione cala, anche perché, ricorda Vento, è estremamente difficile per persone non scolarizzate apprendere, e soprattutto estraniarsi dai problemi esterni e dalle loro difficoltà. Il tempo è un fattore essenziale, sul quale occorre puntare e lavorare, attraverso un progetto reale e concreto.

Per alcuni  gli interventi che si sono succeduti rappresentano una visione parziale e poco realistica della situazione: classi sovraffollate, pochi insegnanti, creano situazioni di difficile realizzazione dei progetti esposti.Tuttavia interrogarsi e confrontarsi su quale lingua e quali metodologie utilizzare nell’insegnamento della lingua ai rifugiati rappresenta un’occasione di riflessione preziosa: non basta più insegnare la lingua italiana, ma occorre diventare una figura nuova, capace di integrare l’apprendimento e le problematiche specifiche dei rifugiati, attraverso un’opera di attenzione costante e sempre più professionalizzata.

Elisa Carrara

(09 marzo 2016)

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