Due alti stabili appartenuti all’Inps, ex Inpdai, e lasciati in disuso per anni, troneggiano nella quasi deserta viale delle province, il civico è il 196-198. La gente ci passa davanti distratta, ma dentro a quei palazzoni c’è un mondo inesplorato: le vite di circa 150 famiglie.
Gli stabili sono stati occupati nel 2012 e il numero delle famiglie all’interno è via via cresciuto, anche se un nucleo originario di occupanti, soprattutto nordafricani, vive ancora lì. Vengono da tutte le parti del mondo e non mancano gli italiani. La coabitazione nella maggior parte dei casi è amichevole, ci sono anche bambini che sono nati lì e tornano correndo da scuola con lo zaino in spalla.
Rafael Cardero è qui dal 2014, viene dal Venezuela, dove era professore di arte in un liceo. La sua vera passione però è l’antropologia con specializzazione etnografica -”E che cosa c’è di meglio per fare ricerca che vivere in una casa occupata?”- chiede ridendo.
La sua seconda casa è la città universitaria dove va spesso a seguire corsi di docenti di geofisica, altra sua passione.
Scrive saggi di filosofia e anche storie per bambini in spagnolo, non ha voglia di cimentarsi con la nuova lingua, in cui si sente ancora insicuro, per questo va a scuola di italiano a San Lorenzo. Come mestiere al momento fa le pulizie a chiamata, in maniera da avere più tempo per ciò che lo interessa davvero: la scrittura e la ricerca.
Non è d’accordo con l’affittopoli solo per i ricchi: l’abitazione è un diritto umano, non è un reato. “Mi piace stare qui, sono abituato a vivere con tante persone. In Venezuela ho due case, peccato che non ci possa ritornare”, il dolore gli si dipinge sul volto quando lo dice, nonostante la sua vitalità, la spezzatura dell’esilio, che ha segnato la sua esperienza così profondamente, è ancora manifesta. “Mi hanno distrutto la vita”.
Oltre ad avere molti interessi la sua storia religiosa è particolare: prima mormone si è convertito all’islam nella sua corrente sciita.
La cosa che più lo rappresenta è la penna: “E’ la mia arma, io combatto con il pensiero”.
Si respira un bel clima: intorno a chi fa il “picchetto” un folto gruppo di persone, mentre i bambini giocano a calcio nel piazzale.
Questo pomeriggio è di guardia Mustafa, per gli amici italiani Hadry, che sta aspettando da un’ora il cambio, deve andare alle prove, ha avuto una giornata molto stancante tra pratiche burocratiche e ospedali. Viene da Casablanca ed è berbero. Nella vita fa il percussionista: suona principalmente musica blues ma anche balcanica e popolare italiana. Non riesce più a vivere con questo lavoro. “In Francia e in Spagna venivo pagato per i miei concerti, qui la situazione è più complicata, da cinque anni è peggiorata, alla gente non interessa più la musica”.
E’ in Italia da trent’anni, a Roma da sedici e da quattro in questo stabile: ama vivere qui. Mentre fa il picchetto saluta affettuosamente le persone che entrano, soprattutto i bambini: “Mi sento lo zio di tutti. Anche i rapporti con i vicini sono molto buoni. All’inizio erano un po’ turbolenti ma adesso no, anche perché gli abitanti che davano più fastidio li abbiamo cacciati, ora siamo tutti tranquilli”.
Ha tante idee per la casa: vorrebbe fare una biblioteca, corsi di arabo, “Vorrei attivare dei corsi di italiano perché alcuni degli abitanti non lo sanno ancora bene, ma c’è poca collaborazione, la gente ha paura. Servono soldi e persone, se no non si può fare niente. C’è un padiglione sotto la struttura, che al momento è inagibile, vorrei rimetterlo a nuovo, creare un’aula studio, un’associazione culturale”. Alcune cose già sono state organizzate, soprattutto per i bambini: ogni anno si tiene un torneo di calcetto e di basket.
Arriva un’ex occupante sua amica, Debora, italiana, per prendere il caffè, si abbracciano stretti poi in arabo urla ad una persona, che si affaccia dal balcone del secondo piano, di scendere “E’ arrivata Debora”. É stata spostata in un’altra casa molto più lontana, le manca la vita che faceva qui, le piace dove sta ma non c’è questo clima amichevole che si era creato con Mustafa e con gli altri, le chiacchierate, le sere in giardino.
La cosa che più rappresenta Mustafa è lo jambee “E’ la mia vita, se gli parlo mi risponde” dice tamburellandoci sopra con un gran sorriso “ma ora devo andare alle prove”, finalmente il cambio è arrivato e sorridente si avvia verso San Lorenzo.
Elena Fratini
(16/06/2016)
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