Sempre più bambini senza tutela: l’allarme dell’Unicef per il 2030

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69 milioni di bambini sotto i 5 anni che moriranno per cause prevalentemente prevenibili, 167 milioni di bambini che vivranno in povertà, 750 milioni di donne che si saranno sposate da bambine e oltre 60 milioni di bambini in età da scuola primaria che saranno esclusi dalla scuola. Sono le inquietanti previsioni per il 2030 che arrivano dal rapporto Unicef sulla condizione dell’infanzia nel mondo, che pone l’accento sì su numeri e questioni, ma soprattutto su un aspetto tanto condiviso quanto ignorato nell’economia mondiale: il diritto all’istruzione.

Si legge nel rapporto che “in media, ogni anno di scuola in più per un bambino si traduce, da adulto, in un incremento di circa il 10% della retribuzione. E, in media, per ogni anno di scuola in più completato dai suoi giovani, il tasso di povertà di quel paese diminuisce del 9%”. Il sillogismo è chiaro: assenza di istruzione è assenza di opportunità e ricchezza e, di riflesso, di diritti.

Donne cui vengono negate le opportunità di gestire la propria salute riproduttiva, o addirittura l’assistenza in gravidanza. Spose bambine, che generano figli destinati a morte prematura. Decessi infantili dovuti a carenza di tutela sanitaria. Sono solo alcune delle conseguenze di una mancanza cronica di tutela in ambito sanitario, che si riflettono inevitabilmente sui soggetti più deboli, i bambini. E il dato demografico localizza in modo netto la parte più svantaggiata del mondo: più della metà dei 59 milioni di bambini che non vanno a scuola, secondo il Rapporto, vive nell’Africa sub-sahariana.

La principale causa della negazione del diritto all’istruzione è la guerra. Emblematico il caso della Siria: si legge nel Rapporto che “nel 2010, prima dell’inizio dell’attuale crisi, quasi tutti i bambini in età da scuola primaria del paese, nonché il 90% di quelli in età da scuola secondaria inferiore, erano iscritti. Cinque anni dopo, nella Repubblica araba di Siria, circa 2,1 milioni di bambini tra i 5 e i 17 anni non frequentavano la scuola. Inoltre, circa 700.000 bambini siriani rifugiati in età scolare non andavano a scuola negli stati vicini”.

Una soluzione, per quanto limitata, viene da alcune buone pratiche: “i sistemi educativi migliori e di maggior successo – come quelli di Finlandia, Repubblica di Corea e Giappone – sono riusciti a combinare equità con qualità. Questi sistemi riconoscono che le necessità degli studenti più svantaggiati sono importanti quanto i risultati raggiunti dai più favoriti”. Inoltre in molti nel mondo si stanno mobilitando per la richiesta di diritti: “in Bangladesh, giovani ragazze stanno promuovendo “zone libere” dal matrimonio infantile. I bambini lavoratori si sono uniti alla Marcia globale contro il lavoro minorile”. La direzione, insomma, è quella giusta, purché le politiche siano davvero condivise.

Resta un ultimo punto, decisamente cruciale, sollevato da Gordon Brown, Rappresentante speciale delle Nazioni Unite per l’istruzione mondiale: “la più grande sfida che il mondo dovrà affrontare nel prossimo decennio sarà quella per colmare il divario tra, da una parte, le opportunità che sono state promesse ai giovani, i quali vedono altri goderne e quindi se le aspettano, e dall’altra la negazione di tali opportunità quando molti di loro si vedono sbattere le porte in faccia”.

Un problema, questo, che è uscito da tempo dai confini del sud del mondo per assumere connotati decisamente più globali.

Veronica Adriani

(27 luglio 2016)

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