Migrazioni e sviluppo, l’inserimento dalla scuola al lavoro

“I ragazzini non sono tutti uguali”, esordisce Stefania Congia, dirigente presso la Direzione Generale dell’Immigrazione e delle Politiche di Integrazione del ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, stravolgendo il messaggio della campagna per i diritti dell’infanzia organizzata dall’Unicef lo scorso 20 novembre. La frase è solo all’apparenza politicamente scorretta, difatti “situazioni differenti richiedono diversi interventi”, l’unico modo per “evitare disuguaglianze sostanziali e arrivare ad una vera parità di diritti, dove l’universalità è rapportata alla condizione”, spiega la Congia nella sua relazione del 26 novembre al Cnr, primo incontro della serie “Vivere le migrazioni”, dedicato allo sviluppo.

I minori stranieri non accompagnati, di cui la divisione della Congia si occupa con particolare attenzione, sono 5613, secondo i dati ministeriali aggiornati al 30 settembre. Di questi, 4530 hanno tra i 16 ed i 17 anni ed il 94% sono maschi. Oltre le mille presenze nel Lazio, più di 700 in Lombardia e Sicilia, questo perché le grandi città, Roma in testa, restano la meta più ambita, anche se “la marginalità sociale è peggiore che nei piccoli centri”. Egitto – specialmente dopo la “primavera araba” – Bangladesh ed Afghanistan le nazionalità più rappresentate, con molti di questi ultimi definiti “invisibili” perché in transito verso il nord Europa, dove le condizioni di tutela sono migliori, dunque non propensi all’identificazione nel nostro paese, “è il problema dell’applicazione della Convenzione di Dublino, così i trattamenti nell’ambito dell’Unione Europea non sono uniformi”.

I progetti di inserimento L’articolo 19 del Testo Unico sull’immigrazione del ’98 garantiva l’inespellibilità dei minori, ma il Pacchetto Sicurezza del 2009, per frenare i massicci arrivi, ha previsto delle restrizioni, per cui al compimento del diciottesimo anno si poteva ottenere il permesso di soggiorno solo per i ragazzi in Italia da almeno tre anni e con alle spalle due di percorsi di inserimento. La legge 129 del 2011, che ha modificato il T.U. di 13 anni prima, ha istituito un comitato incaricato di fornire pareri su ogni singolo caso. “L’intervento è sperimentale, con avvisi per l’inserimento direttamente ai ragazzi, senza passare da enti intermedi, modalità personalizzate e il più veloci possibile, cercando anche di responsabilizzare i beneficiari”. Il maggior numero di richieste è arrivato dall’Emilia, 185, con il Lazio al secondo posto. Alla scuola, che pure ha un totale di 428 iscritti, è preferito il lavoro, “avamposto di progetti familiari più complessi”.

Il ruolo della formazione e dei servizi all’impiego L’esperienza formativa per gli stranieri, a differenza dei colleghi italiani, non viene vista come un fallimento negli studi ma un’opportunità. Non un ripiego ma una scelta per il futuro, condizione necessaria per un ingresso più qualificato nel mercato del lavoro, “visto il problema, prima ancora della valorizzazione, del riconoscimento dei titoli”. Tanto che i dati riportati da Elena Ragazzi, dell’Istituto di Ricerca sull’Impresa e lo Sviluppo del Cnr, parlano di un livellamento tra nostri connazionali e non nel risultare idonei alla fine dei corsi, con valori tra l’80 e il 90%. Le differenze stanno piuttosto nei canali di ricerca di impiego, con gli italiani meno propensi a rivolgersi ad intermediari e operatori specializzati, privilegiando la ricerca autonoma. Ciò che sembra maggiormente penalizzante è la disoccupazione di lunga durata, “quasi uno stigma difficile da togliere, così come la totale inesperienza”. Le differenze di genere diventano significative a livello qualitativo: le donne con stipendi medi più bassi, minore durata dei contratti e peggiori condizioni in generale, ma la semplice dicotomia tra presenza e assenza di lavoro non ha rilevanti squilibri.

La strutturazione del lavoro immigrato nella crisi I fattori che hanno consentito una crescita esponenziale della presenza di lavoratori stranieri regolari nel nostro paese sono molteplici, secondo quanto riportato dagli studi di Corrado Bonifazi, dirigente di ricerca presso l’Istituto di Ricerche sulla Popolazione e le Politiche Sociali del Cnr. Sicuramente va preso in considerazione il forte sviluppo, specialmente nelle aree del centro-nord, ma anche i deficit costitutivi del mercato italiano, come il notevole peso economico del sommerso e un sistema di welfare inadeguato a fronteggiare il processo di invecchiamento. La crisi economica non ha penalizzato la condizione degli immigrati, come spesso accade per le categorie più deboli, ma ha colpito loro nella stessa maniera degli italiani. Le ragioni sembrano stare sia nell’impatto sul sistema produttivo, sia in un raggiunto radicamento nel sistema di lavoratori dall’estero, ormai da considerarsi ben strutturato. “L’autoimprenditorialità è un veicolo di mobilità sociale negato nel lavoro dipendente”, aggiunge Immacolata Velleco, dell’Istituto di Ricerche sulle Attività Terziarie del Cnr. Non solo garantisce benefici economici, ma è “un modello di successo nelle comunità e di visibilità nella partecipazione istituzionale”. Si tratta più che altro di autoimpiego, dove l’impresa è creata dal lavoro del titolare, “influenzato da intraprendenza, forza di reazione a contesti difficili e requisiti personali”. Il fenomeno è in crescita ma ha anche un’alta mortalità. I paesi di principale provenienza sono i Bric, Brasile, Russia, India e Cina, con quest’ultima avanti a livello assoluto ma con la Russia ad aver registrato lo sviluppo più consistente.

Diversità e coesione sociale Negli ultimi anni è aumentata la tendenza di parte delle scienze sociali di adottare un’ampia definizione di “diversità”, includendo non solo aspetti connessi a valori culturali, ma anche differenze di genere, status socio-economico, orientamento sessuale. Perciò, riporta Camilla Pagani, ricercatrice presso l’Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione del Cnr, “i significati di gestione della diversità sono legati a tematiche come coesione e conflitto socio-politico”. Risultati positivi si hanno “riconoscendo e dialogando con i membri dei gruppi, capendo ed accettando le differenze”. Gli studi su gruppi di studenti tra i 15 e i 19 anni nelle nostre scuole, hanno mostrato che la maggior parte di loro ha perso o addirittura mai sperimentato la sensazione di coesione sociale, collegata alla sfiducia verso le istituzioni pubbliche. Molte opinioni sono caratterizzate da disinformazione su aspetti significativi della realtà italiana, come ritenere che gli immigrati ricevano molti sussidi dallo Stato e che commettano più crimini impuniti, a differenza dei nostri connazionali. Insicurezza e mancanza di unità creano paura e di conseguenza aggressività, anche se poi le stesse persone hanno mostrato empatia ed interesse verso il racconto delle storie personali dei compagni di classe di altra nazionalità, a significare che, almeno su livelli di prossimità, si può costruire un contatto interculturale. Un ruolo importante deve essere svolto dagli insegnanti, per promuovere relazioni e consapevolezza nel complesso processo di comprensione.

M. Daniela Basile(27 novembre 2012)