Atta Vafakhah (il primo a destra) con gli ospiti del centro di accoglienza CRI di Via Ramazzini“Sono arrivato in Italia il 17 luglio 2014”. Atta Vafakah scandisce precisamente il giorno, il mese e l’anno, come si fa per le date importanti. “A Roma sono stato ospite del centro di Via Staderini, ero preparato al peggio ma mi è andata bene”. Oggi è coordinatore del centro di accoglienza di Via Ramazzini gestito dalla Croce Rossa e lavora con una squadra di 16 operatori.“Ho deciso di lasciare l’Iran da un momento all’altro. Avevo 22 anni”. Atta è stato un campione di arti marziali Wushu e per due anni, durate la leva obbligatoria, ha lavorato nei servizi speciali iraniani. “Un giorno guardavo la TV, su un canale persiano leggevano la Bibbia e mi sembrava interessante. Venivo dal servizio militare e l’idea di un Dio che perdona mi piaceva. Cominciai a parlare del cristianesimo con i miei amici e tutti mi dicevano: no, non devi pensare che sia interessante la Bibbia”. Oggi parla di religione con lo scetticismo di chi non crede.In Iran esiste il reato di blasfemia ed è punito con la pena di morte. “Bastano tre persone a testimoniare la tua infedeltà alla religione islamica per farti arrestare, processare e condannare a morte. Mi sono detto: se anche i miei amici migliori non mi capiscono, questo paese non fa per me. È così che ho deciso di andare via per sempre, non voglio che il mio cervello abbia dei limiti“.A Roma è arrivato passando per il nord Europa. “Ho comprato un visto all’ambasciata italiana e sono partito. L’ho ottenuto a un buon prezzo: 4 mila euro, può costare anche 20 o 25 mila euro. Ma i danesi non vendono. Gli italiani, i greci, i francesi invece sì”. Prima di Roma, ha vissuto sulla sua pelle l’accoglienza nei paesi nordeuropei. “E funziona”, dice.“Ho raggiunto Copenaghen, dove vive mia madre, con un volo da Istanbul. Ma avendo il visto italiano, sarei dovuto andare in Italia per gli accordi di Dublino. Così sono scappato dal centro e mi sono diretto in Olanda, dove ho altri parenti”. In questo lungo giro, inconsapevolmente e da ospite, ha fatto la miglior gavetta possibile per il ruolo che ricopre oggi.Quando parla di come ha ottenuto il suo lavoro, Atta riassume: “fortuna”. Ma sarebbe meglio chiamarla determinazione, di studiare da subito l’italiano, di provare a fare qualsiasi lavoro possibile, di iscriversi all’università nonostante avesse già una laurea in scienze motorie. “Mi sono iscritto a Scienze del Turismo, poi non ho ottenuto la borsa di studio, ma ho continuato a seguire le lezioni finché gli impegni non me lo hanno impedito”.Mentre parla non perde mai di vista il cellulare, risponde alla telefonata di un operatore, si scusa: “Devo essere sempre reperibile”. E continua: “A febbraio 2016 ho cominciato a lavorare come operatore notturno in un centro per minori non accompagnati della Croce Rossa. All’inizio è stato difficile: solo io e 20 ragazzi egiziani. Poi quando abbiamo aperto il centro in Via Ramazzini mi sono spostato lì con il mio coordinatore, dopo qualche mese mi è arrivata la proposta per la gestione del centro”.Ma per uno sportivo come Atta, una piccola vittoria è già l’inizio di una nuova sfida. La più difficile? Realizzare un modello di integrazione basato su un circolo virtuoso tra centri di accoglienza, comune, ufficio immigrazione e imprenditori. “Devo riuscirci in due anni, nel frattempo ho anche in programma di aprire un B&B, quando sono arrivato a Roma mi sono detto subito: in questa città posso fare qualcosa”. “Spesso non si considera che le persone che arrivano hanno già una loro professionalità, sembra che tutti debbano e possano fare solo gli operai, i pizzaioli, i camerieri. Bisognerebbe conoscere le competenze dei migranti e offrire loro anche delle opportunità coerenti con le esperienze che hanno già avuto. Gli operatori devono scoprire e valorizzare i talenti che arrivano, è un’opportunità anche per l’Italia”. L’idea è quella di realizzare un modello di vera integrazione e di rapporti reciproci: anche i migranti devono avere la curiosità, oltre che la possibilità, di conoscere il paese in cui si trovano, partendo proprio dai quartieri che abitano.“Queste persone hanno un anno e mezzo per costruire la loro vita”, conclude. Un anno e mezzo che Atta Vafakah cerca di riempire di occasioni, di incontri, di conoscenze, senza mai lasciare un vuoto ai suoi ospiti. Proprio come ha fatto per se stesso.
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