Ai primi di febbraio di questo 2017 l’apertura ogivale della porta meridionale della Cittadella di Erbil inquadra poche sagome che si stagliano sull’azzurro pallido del cielo: una coppia di sposi, pochi turisti. Superata la porta si scende la rampa che porta nel bazar, una quindicina di metri più sotto. Il bazar di Erbil è un Qaysari, un intrico di viuzze coperte su cui affacciano piccoli negozi di lane, formaggi, legumi, dolciumi, abiti, chincaglieria, frutta secca. Ogni merce disposta a arte. Molte donne da sole in niqab nero.
Il bazar risale al XIII secolo, ma questa città che sorge ai bordi settentrionali della Mesopotamia è più antica perché è stata abitata continuativamente da seimila anni. In tempi recenti il Qaysari è diventato il lato occidentale di una grande piazza arredata con specchi d’acqua e isolette, fontane e getti d’acqua peraltro, inutile dirlo, chiusi. Anche il lato orientale della piazza è stato adibito a mercato ma lì prevalgono altri commerci: condizionatori per l’aria, pompe idrauliche, ferramenta, lampadine, sedie a rotelle e stampelle. La piazza è chiusa a meridione dagli edifici di un grande magazzino. A Nord invece ritroviamo la collinetta della Cittadella, con le sue alte mura di mattoni e la porta ogivale.
Il Kurdistan iracheno è una regione ricca di petrolio, relativamente sviluppata, all’interno di un percorso che in tempi remoti fu denominato “via della seta” e che sta rinnovando la sua importanza. La sua capitale, Erbil, con quasi due milioni di abitanti è uscita più indenne di altre città dallo sconquasso della guerra al regime di Saddam Hussein nel 2003. Non è stata a lungo terreno di battaglia perché la popolazione, in maggioranza curda, ha rapidamente colto l’occasione per allearsi con i vincitori, liberarsi del regime e allontanare lo scontro. Eppure nel 2013 nasceva lo Stato Islamico del Califfato, l’ISIS, che nella sua espansione in Iraq arrivò a sfiorare la periferia prima di venir ricacciato verso ovest e verso sud. Oggi la città ha un aspetto tranquillo e ordinato come se la guerra fosse una attività da gestire nel tempo con compostezza e senso del management. Il flusso costante dei profughi raccolto fuori città, all’interno di appositi campi.
Il suo aeroporto internazionale di Ankawa, a pochi chilometri dal centro, è un punto di accesso privilegiato per le aziende europee, americane, turche, giapponesi e russe che lavorano nella regione. Da lì partono e arrivano per lavoro, allegri di passaporto e sicurezza, operai di mezza Europa.
Carla Centioni di Pontedonna era partita da lì per il suo viaggio a Kobane e io ero rimasto ad aspettarla in città, nella capitale di un governo regionale con aspirazioni nazionalistiche e attualmente a ottanta chilometri dal fronte. La aspettavo guardando telegiornali che parlavano da soli, in cui per siparietto si presentava l’ultimo grido in fatto di mitragliatori. Carla era tornata, consumata dal viaggio alla Casa delle Donne che Pontedonna, con il contributo dell’8 per mille della Chiesa Valdese, sta ricostruendo a Kobane, ma desiderava visitare la città. Potevamo concederci qualche ora di turismo prima di prendere l’aereo per il ritorno. Comprammo un vassoio di dolciumi e andammo a sederci su una panchina della piazza. Ne assaggiammo pochi perché uno, due, tre bambini ci comparvero davanti a mendicare e noi distribuimmo dolci piuttosto che monete.
Lei apparve quando gli altri se ne furono andati. Era una bambina di sette o otto anni, castana chiara, le fattezze del suo viso non le ricorderò mai. Magra, sporca, sola. Mi si mise davanti muta guardandomi diritto in faccia e vedendomi. Le offersi l’ultimo dolce. Nemmeno abbassò gli occhi per guardarlo. Non osai pensare ai soldi, ero paralizzato: se avesse rifiutato anche quelli preferisco non immaginarlo.
Guardai Carla, le sussurrai di andare e alzandomi molto lentamente perché non sembrasse una offesa e perché tutto avesse il suo tempo, anche quello della testimonianza, iniziai passo dopo passo a allontanarmi. Mi seguì per un poco, stringeva con la mano sinistra un lembo del mio giaccone. Per un miracolo non si aggrappò. Ma cosa darei perché non mi avesse accompagnato silenziosa per poi sparirmi alle spalle lasciando che mi allontanassi nel gorgo di una fuga.
Giancarlo Scotoni
(12 settembre 2017)
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