Alessandro Leogrande “scrittore di corpi in fuga”

Alessandro Leogrande (foto il Sole24ore)
Alessandro Leogrande (foto il Sole24ore)

In tutto ciò che Alessandro Leogrande ha scritto si impone la forza di una scrittura che ha in sé, oltre alla cura delle parole, la passione della conoscenza che si mette al servizio di valori saldamente sentiti. Leggendo i suoi scritti capiamo di più e riattiviamo il nostro sentire di esseri umani. E ci abbandoniamo al piacere della lettura perché il genere misto del reportage narrativo che lui ha privilegiato ci trascina dentro le cose. Di lui sono state messe in evidenza tante qualità: la radicalità e la mitezza di chi difende con intransigenza le sue idee senza aggressività; l’intelligenza analitica del ricercatore tenace; la passione civile di chi ha deciso di stare dalla parte degli ultimi; la tensione etica del professionista che si interroga sul confine che separa il dovere della memoria dalla morbosità o dalla spettacolarizzazione. Ma qui  ne sottolineiamo soprattutto una: la capacità di sentire il dolore degli altri.

“Scrittore di corpi in fuga” l’ha definito il suo professore di liceo, Roberto Nistri, e infatti di migranti e immigrazione Leogrande ha scritto molto, ricordando sempre tra le pagine il suo essere uomo del Sud, di una città pugliese ferita: Taranto. E forse proprio perché uomo del Sud, animato da una grande tensione politica, denunciava non solo la tendenza a deumanizzare, ma anche quella a vittimizzare i migranti, trattati non già come persone con volontà, sentimenti e progetti, bensì come corpi da salvare e sfamare, o da tenere lontani.

Il suo ultimo libro: La frontiera

I suoi libri non ci permettono di voltare la testa dall’altra parte, indifferenti al male del mondo. L’ultimo, La frontiera, comincia con un atto di onestà intellettuale, con la consapevolezza che: per quanto possiamo dire di immaginare le motivazioni che spingono milioni di uomini a lasciare le proprie terre per sfuggire a situazioni insopportabili o per migliorare la loro esistenza; per quanto ci possano colpire le immagini drammatiche dei viaggi di questi uomini, dobbiamo tuttavia riconoscere che ci restano incomprensibili “i frammenti di Storia, gli sconquassi sociali, le fratture globali che avvolgono le motivazioni individuali, fino a stritolarle. Incomprensibili perché provengono da un altro mondo” e nulla o poco sappiamo della loro vita prima del viaggio verso l’Europa.

L’ossessione di raccontare le storie dei migranti

Da questa consapevolezza Leogrande era partito per cercare di ricollegare le singole storie di tanti migranti alle condizioni di vita nel loro Paese, a quel “ginepraio di violenza, lutti, oppressione” da cui fuggono. E aveva deciso di raccontare quante più storie possibili riguardanti la frontiera del Mediterraneo. Fissare brandelli di esistenza per strapparli al silenzio: era per lui un imperativo morale, un’ “ossessione”, perché “la frontiera è un termometro del mondo”, è un “solco che attraversa la materia e il tempo, le notti e i giorni, le generazioni e le stesse voci che ne parlano… Di qua c’è il mondo di prima. Di là quello che deve ancora venire, e che forse non arriverà mai”.

E così raccoglie storie: del curdo Shorsh, del somalo Hamid, di Ali che viene dal Darfur, di tanti eritrei… E al termine di ogni racconto che lui ascolta gli resta l’amara sensazione che non c’è nulla che possa colmare la distanza che separa noi europei dai migranti, perché la frontiera è una faglia sotterranea che taglia in due il Mediterraneo.

Insegue i racconti Leogrande e viaggia, anche lui. Dopo Lampedusa va in Sinai, dove migranti rinchiusi in scantinati attendono tra torture e violenze, attendono nel terrore di essere venduti come schiavi e nella speranza di poter fuggire. Segue i flussi migratori che cambiano le rotte, delineando altre frontiere, in Grecia, in Turchia, in Ungheria; si occupa dei trafficanti; incontra i giovani che hanno trovato un lavoro in alcune città italiane.

Il naufragio del 3 ottobre 2013

Tra le tante storie, il racconto del naufragio del 3 ottobre 2013: la fine di un viaggio iniziato non giorni, ma mesi prima, per mare, nel deserto, in luoghi impossibili da riconoscere, rinchiusi dentro recinti. Quando l’attraversamento finalmente comincia è notte, al mattino Lampedusa è a ottocento metri. Le persone sul peschereccio sono felici, chi può si cambia i vestiti. Vedono avvicinarsi una nave e poi un’altra, pensano che siano per loro, per venire a prenderli, ma quelle passano oltre. Monta l’agitazione. Il peschereccio comincia a imbarcare acqua. Cresce il panico. La coperta infuocata che il capitano agita per sedare gli animi li agita ancora di più. La gente impaurita si ammassa verso la prua e lì succede l’irreparabile: in pochi minuti l’imbarcazione si capovolge. La gente in mare viene impregnata dal gasolio che finisce in acqua. Tanti affogano nell’acqua resa vischiosa, alcuni si aggrappano a tavole di legno, molti si lasciano risucchiare, altri nuotano fino allo sfinimento. I sopravvissuti racconteranno di mani afferrate e perse, di corpi scomparsi, di acqua salata e gasolio bevuti, e ancora delle storie dei tanti sepolti senza nome. 368 vittime accertate. Quasi tutti eritrei.

Qual è il nostro atteggiamento di fronte alla violenza del mondo? – si chiede alla fine del suo libro, la risposta sembra trovarla nella tela di Caravaggio che raffigura il Martirio di San Matteo, nello sguardo dell’uomo in disparte, Caravaggio stesso, che assiste impotente alla violenza del martirio che sta per compiersi. Nella tristezza infinita di quello sguardo Leogrande riconosce il suo.

Luciana Scarcia

(10 dicembre 2017)

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