“Prendi questa mano, zingara”, “Che colpa ne ho se il cuore è uno zingaro e va?”, sono soltanto due tra i più noti ritornelli delle 137 canzoni italiane, composte a partire dagli anni ’20 del Novecento fino ai giorni nostri, che parlano di zingari e zingare, gitani e gitane, zigani e rom. La presenza dello zingaro è una costante nella storia della musica italiana, ma in che modo viene rappresentata questa figura dell’alterità?
Il volume di recente pubblicazione Quando arrivarono al mare. Zigani gitani zingari rom nella canzone italiana, Cisu, 2019, scritto da un’equipe di ricercatori capitanata da Leonardo Piasere, professore ordinario di Antropologia culturale presso l’Università di Verona e uno dei massimi esperti del mondo rom, ripercorre le tappe di questa presenza con un occhio sempre attento al contesto storico-sociale del nostro paese.
Zingari e zingare nella canzone italiana
Sempre i gagè, ovvero i non-zingari, nelle loro canzoni hanno parlato di zingari e zingare, facendone simboli di libertà, ma anche di passione, vitalità, mobilità estrema e astuzia. Nella storia della canzone italiana gli zingari sono ritratti con connotazioni in larga parte positive, che poco hanno a che vedere con le politiche di segregazione e l’ostilità sociale cui sono stati fatti oggetto da sempre nei paesi di transito o di stanziamento. Spesso, anzi, la canzone italiana si è posta in netta controtendenza rispetto ad esse, denunciando per esempio l’antiziganismo, talvolta latente talaltra manifesto, che affligge il nostro paese. Si legge, infatti, nell’Introduzione: “Dei novantadue anni presi in considerazione quasi il 60% delle canzoni sono state scritte negli ultimi tre decenni, dal 1991 al 2018 […] Un fenomeno che rientra nel più ampio processo di visibilizzazione che rom e sinti hanno conosciuto negli ultimi decenni nell’opinione pubblica italiana soprattutto in seguito alla cosiddetta ‘Emergenza Nomadi’ scatenata in Italia nel 2008-2009”.
Gli stereotipi: amore e viaggio
Pur nella continuità dei temi – amore, lontananza, fiaba, musica – e delle metafore – viaggio, seduzione, chiromanzia, estraneità all’ordine sociale – associate alla figura dello zingaro, si possono distinguere quattro grandi periodi. Le sonorità del violino e del tango, che accompagnano storie d’amore languide e appassionate sullo sfondo delle steppe ungheresi, contraddistinguono il primo “periodo zigano”, che va dagli anni ‘20 fino alla fine della II Guerra Mondiale: “Suona, zigano, per me / canta un tango che vien dal cuor / canta un tango d’amor”, gorgheggiava il soprano Gina Allulli Olivieri nel brano Suona Zigano del 1936. In questo periodo la figura dello zigano è talmente popolare da diventare protagonista di un dramma romantico scritto dallo stesso Mussolini, che pure fin prima dell’emanazione del Manifesto della Razza aveva affrontato la questione degli zingari come mero problema di ordine pubblico.
Tematiche amorose, declinate in una chiave decisamente più passionale, risultano preponderanti anche nel successivo “periodo gitano”, che va dal Dopoguerra fino agli anni Sessanta. L’Andalusia sostituisce l’Ungheria, la chitarra il violino in questa Italia affamata di vita, in cerca di piacere e nuove avventure: “Addio, Granada, / addio, città dei gitani. / Dovunque io vada / per sempre nel cuor mi rimani!”, cantava Claudio Villa nella celeberrima Granada del 1957.
L’emergere delle tematiche sociali
Un’attenzione alla realtà concreta degli zingari, tra emarginazione ed emblema di alternativa sociale, comincia a formarsi in concomitanza del ’68 e dell’esplosione delle tematiche sociali, dando l’avvio al “periodo zingaro”, che va dal ‘68 fino ai primi anni ’90, il cui esempio più significativo è senza dubbio il semisconosciuto brano Gli zingari di Enzo Jannacci (1968), dal cui ritornello lo stesso saggio trae il titolo: “Fu quando gli zingari arrivarono al mare / che la gente li vide, che la gente li vide / come si presentano loro, loro, loro gli zingari, / come un gruppo cencioso, così disuguale / e negli occhi impossibile, impossibile poterli guardare.” O ancora Claudio Lolli in uno dei suoi pezzi più famosi, Ho visto anche degli zingari felici, così canta nel 1976: “Ma ho visto anche degli zingari felici / corrersi dietro, far l’amore / e rotolarsi per terra.”
Ma è il “periodo rom”, che va dagli anni ’90 fino ai giorni nostri, quello decisamente filozigano, in aperta contrapposizione al clima di crescente antiziganismo che si respira nel paese. Uno dei suoi capolavori è senza dubbio Khorakhanè (a forza di essere vento) di Fabrizio de André (1996), che fin dalle prime strofe ci trasporta nella realtà dei campi rom: “Il cuore rallenta la testa cammina / in quel pozzo di piscio e cemento / in quel campo strappato dal vento / a forza di essere vento”.
Nei brani che parlano di zingari e rom prevalgono tematiche antirazziste, si denuncia la trasformazione dei rom in capri espiatori su cui razzisti, ma anche conformisti benpensanti, riversano la rabbia sociale. Nel 2016 le radio diffondono Zingara (Il cattivista) della band The Zen Circus, un brano nato da una sorta di esperimento sociale. Il testo, spiegano gli autori, è per buona parte composto da frammenti di commenti realmente pubblicati da utenti di Youtube in calce a video su zingari e rom. Così, ad esempio, si conclude il brano: “Difendo i miei cari, i miei interessi / difendo la mia razza da tutti i compromessi / difendo il cane il gatto, guai a chi li tocca / ma a una zingara sì, le sparo in bocca.”
In questa ultima fase, finalmente, zingari e rom ottengono la dignità di un nome proprio e il riconoscimento del proprio passato di genocidi e persecuzioni.
La storia di come raccontiamo e cantiamo l’Altro, suggerisce in ultima analisi il libro, parla anche di noi.
Silvia Proietti
(15 gennaio 2020)
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