Ramadan: l’Iftar, il pasto che interrompe il digiuno

Il Ramadan a Roma ha avuto inizio l’11 marzo, i fedeli hanno cominciato a pregare all’alba, esattamente alle 06:28, quando sorge il sole. M. cucina l’Iftar, il pasto che, al tramonto, interrompe il digiuno. Lei è una giovane donna bangladese catapultata a Roma dodici anni fa per sposare un uomo che vive in Italia da molti anni. Hanno avuto una figlia che ora ha sei anni, la prima generazione nata in Italia. M. esordisce dicendo che in Bangladesh il Ramadan inizia il giorno seguente: il 12 marzo.
Sono le tre del pomeriggio. All’alba, M. ha recitato Fajr, ha pregato di nuovo a metà mattinata e recitato il Tahajjud, una preghiera volontaria. M. fa parte della comunità musulmana si stima che siano due milioni 700mila i musulmani residenti in Italia, un numero destinato a crescere se si prendono in considerazione i ragazzi nati in Italia, di religione musulmana.

Donne durante l'Iftar
Donne bangladesi che partecipano all’Iftar durante il Ramadan(foto Ilaria Moretti)

Il Ramadan di una donna musulmana a Roma

La preparazione dell’Iftar è iniziata il giorno prima. M. ha indossato dei vestiti di garza, molto leggeri, e nascosto i capelli in una sciarpa, previene la domanda, “Prima di venire in Italia, portavo anche il niqab”, con la mano copre la bocca e il naso ad indicare che è il velo che lascia scoperti solo gli occhi, “non lo metto più ma qualche volta mi manca”. Sorride un po’ mesta, fosse dipeso da lei, non l’avrebbe mai tolto. M. parla un buon italiano, ha preso la licenza media, ogni tanto le sfugge una parola in lingua bangla e si spazientisce un po’ se le si chiede cosa significhi. Ora, dice M. “Vorrei prendere il diploma, la professoressa ha detto che potrei frequentare anche tre volte la settimana ma la scuola è serale e non ho voglia di lasciare la bambina da sola anche se è con il padre”. Questo è il motivo per cui aspetta con ansia l’arrivo della sorella rimasta in Bangladesh, anche lei è sposata con un uomo che vive da tempo a Roma. “La bambina” spiega “potrà stare con la zia e io andare a scuola”.

La preparazione dell’Iftar, i colori del pasto che interrompe il digiuno

Anice stellatoAnice stellato

Prima di iniziare a cucinare, M. recita la terza preghiera. Pregherà di nuovo dopo la cena e prima di andare a dormire,Maghrib, “Spero di avere il tempo di recitare anche Tarawi, una preghiera non obbligatoria” dice M., “di solito, la recitano le donne e quelli che restano a casa. Gli anni passati leggevo anche il Corano, per due, tre ore, mattina e pomeriggio ma quest’anno non ho tempo perché devo preparare l’Iftar,”. L’Iftar, il pasto che interrompe il digiuno, viene cucinato dalle donne ed è per tutti i fedeli della piccola comunità, circa sessanta persone.
M. ha spalancato tutte le finestre, c’è ancora un po’ di sole ma comincia a far freddo, spera che l’aria porti via un po’ degli odori che si percepiscono, soprattutto quello della cipolla, ne ha affettate all’incirca tre chili. Tutti i fedeli, salvo alcune eccezioni, devono rispettare il digiuno iniziato all’alba, dopo aver fatto colazione, fino al tramonto. M. controlla sul cellulare e spiega, “L’orario del tramonto come quello dell’alba, cambia ogni giorno, oggi è alle 18:08”. Nei piatti da portata ci sono le verdure che M. ha preparato: una purea di patate gialla, una di lenticchie rosse, lo zenzero frullato, i ceci marroni bolliti per più di due ore, la pastella fatta con la farina Besan, una farina di lenticchie. Prende  un barattolino con la dicitura “Food colouring powder”, spolvera un po’ della polvere colorata nella pastella di farina, spiega, “La polvere serve per rendere più intenso il colore delle pietanze”. Il colore dominante è l’arancione per via delle lenticchie rosse e soprattutto, della curcuma che M. aggiunge a cucchiaiate.  In un piatto, c’è un’erba tagliuzzata finemente di un bel colore verde acceso che somiglia al prezzemolo.  M. sorride, “Non è prezzemolo, è coriandolo”. I colori delle pietanze si alternano e si combinano come all’interno di un caleidoscopio: rosso, arancione, verde, giallo, marrone. M. fa spallucce, “Oggi, non ho pregato abbastanza e non mi piace cucinare”. M. apre e chiude i barattoli delle spezie, insaporisce le pietanze, amalgama la purea di lenticchie e quella di patate con una certa perizia. I ceci lessati finiscono in una pentola, dove oltre all’aglio e alla cipolla fritta, vengono gettate tutte le spezie possibili: alloro, cannella, peperoncino verde, rosso e giallo, anice stellato, un piccolo fiore marrone chiaro che sembra fatto apposta per impreziosire le pietanze.

M. parla sottovoce, “Dovrò preparare il pasto tutti i giorni”, fa una piccola smorfia, “ma è solo per un mese. In Bangladesh” racconta, “è tutto diverso”, le strade e le case vengono preparate per il Ramadan e soprattutto, la tua preghiera diventa un tutt’uno con quella che, dall’alto del minareto, raggiunge la strada e le case, “sembra di sentire le voce dei tuoi vicini che pregano”. Alle 17 la figlia di M. torna a casa., M. le parla nella lingua bangla mentre la bambina, che non smette di saltellare, risponde ostinatamente in italiano. M. non sembra farci caso, non ha tempo da perdere, l’Iftar deve essere pronto per le 18:08. Impasta la purea di patate per renderla ancora più omogenea, aggiunge altri cucchiaini colmi di curcuma e di spezie che ha provveduto a frullare. “Come ha detto di fare mia madre”, il peperoncino spezzettato, il coriandolo. Quindi raccoglie nel palmo un po’ della purea di patate, la arrotola e la tuffa nella pastella gialla; lascia cadere la polpetta nella padella dove ha messo a scaldare circa mezzo litro di olio di semi.  Le polpette di patate, le Alur chopps, hanno le dimensioni di una palla da tennis. Poi è la volta delle frittelle di lenticchie rosse. L’impasto piuttosto appiccicoso, passa da una mano all’altra e viene lasciato colare nella pastella, finisce nell’olio caldo per diventare una Piyaju, uno snack croccante che somiglia molto ai biscotti “brutti ma buoni”.

Vivere il Ramadan lontano dal proprio Paese

M. continua a friggere e parlare, “A Roma ha imparato a pregare da sola, anche perché non sempre nelle moschee, c’è spazio per le donne. Quest’anno, hanno messo una tenda e anche noi possiamo andare”. La voce di M. diventa squillante quando risponde al cellulare. Inizia la lunga videochiamata con la famiglia che è in Bangladesh, “Sono otto anni che non vedo mia madre ma quest’anno vado a trovarla, anche se devo partire da sola”. E la bambina? “Lei non può venire in Bangladesh, i bambini che sono nati e cresciuti in Italia, si ammalano sempre”. Dopo otto anni, è probabile che anche lei dovrà riadattarsi al cibo e all’acqua del suo Paese. Malgrado le finestre aperte e l’aria fresca della sera, l’odore delle spezie e delle cipolle è sempre più pungente. Anche M. comincia a fare qualche smorfia, dice “Quando finisco vado a fare una doccia e cambiare gli abiti, oggi ho fatto tre lavatrici, ho lavato anche i tappetti”. Forse è per questo motivo che M. non toglie il velo che ripara i capelli.

Perché cucini, digiuni e preghi?

Perché fai tutto questo M.? Ti fa male la schiena e non sopporti l’odore delle cipolle e della curcuma. Perché preghi più di quello che dovresti e vorresti leggere il Corano tutto il giorno? Perché indossi abiti che nascondono la forma del corpo e ti manca il niqab? M. non ha dubbi, “Per andare in Paradiso e perché se no?”. Già, perché lei l’ha letto, è tutto scritto. La casa di M. è un piccolo mondo a sé, il Bangladesh si trova al terzo piano di una graziosa palazzina di Tor Pignattara. Solo quando ci si ritrova al bar a chiedere un caffè e si fa il vuoto intorno, ci si rende conto che un po’ dell’odore di quel mondo è rimasto appicciato addosso e ha impregnato non solo gli abiti ma anche la mente. Forse, il giorno seguente, M. potrà pregare in videochiamata accompagnata dalla voce della madre e si sentirà meno sola.

Livia Gorini
(17 marzo 2024)

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