1° febbraio, Giornata Internazionale del velo islamico

Il 1° febbraio si celebra il “World hijab day”, giornata internazionale del velo islamico.

Shiva Boroumand è iraniana, attivista del movimento “Donne, Vita e Libertà”, vive a Roma da 5 anni, ha sposato un italiano, conosciuto in Iran in occasione di un viaggio come turista, Shiva era la guida del gruppo. La ribellione di Shiva inizia quando era ancora un adolescente, quando non erano molte le ragazze che rifiutavano di indossare l’hijab. “Non indossavo l’hijab e non pretendevo che lo indossassero le donne che erano con me in tour” racconta, “mi hanno anche sospeso il tesserino di guida e non ho lavorato per un anno ma l’hijab era una scusa, in realtà facevo concorrenza ad un funzionario pubblico che sponsorizzava un’altra agenzia di viaggi. Dietro alla repressione ci sono sempre altri interessi, potere, soldi, che sono assai poco religiosi”.

Il rischio di generalizzare, l’integrazione delle donne musulmane

Shiva sa che la situazione della donna iraniana non rispecchia la realtà molti Paesi islamici “Ci sono Paesi, come in Afghanistan, dove la religione è interpretata in modo ancor più restrittivo, la donna deve indossare il burka, ma si tratta dell’interpretazione che hanno dato gli uomini al Corano”. Da quando è a Roma Shiva ha collaborato con CIDIS e A Roma Insieme Leda Colombini (un’associazione che sostiene le donne e i bambini costretti a vivere in carcere).

All’interno di queste organizzazioni Shiva è entrata in contatto con altre donne musulmane, “Per alcune di loro è molto difficile decidere di non rispettare le tradizioni, imparare l’italiano, rifiutare di indossare l’hijab, sono emarginate nel Paese che le accoglie e all’interno della loro stessa comunità”.

L’Hijab, simbolo della ribellione della donna iraniana

In Iran, l’hijab è un’arma in mano alle donne, il rifiuto di indossarlo è la protesta contro il regime teocratico iraniano. Il tentativo di mettere a tacere queste donne con leggi sempre più repressive, fino alla pena di morte, sembra destinato a naufragare, “Se prima c’erano donne che lo indossavano convintamente perché religiose, ora le stesse donne rifiutano di indossarlo”, Shiva ricorda Gohar Eshghi, madre ottantenne del blogger iraniano Sattar Beheshti, morto nelle carceri iraniane nel 2012 che, per protesta ha deciso di non indossare più il velo.

Le autorità iraniane cercano di reprimere il movimento di libertà delle donne, il 15 dicembre 2024 il Consiglio Supremo di sicurezza nazionale ha chiesto al Parlamento di rinviare l’entrata in vigore di una  nuova Legge che prevede la pena di morte per le donne che rifiutano di indossare l’hijab.

Il fallimento delle politiche islamofobiche

L’iniziativa di celebrare l’orgoglio della donna musulmana, di cui l’hijab era il simbolo visibile, nasce nel 2013 su input di Nazma Khan, attivista originaria del Bangladesh, emigrata negli Stati Uniti all’età di 11 anni.

Bisognava arginare la dilagante islamofobia conseguenza degli avvenimenti dell’11 settembre 2001, quando due aerei vennero dirottati e sgretolarono, insieme alle Torri Gemelle, la sicurezza dei cittadini statunitensi e di tutto l’Occidente.

Nazma Khan aveva compreso che bisognava rassicurare, la religione musulmana non era una minaccia. Peraltro la demonizzazione della religione aveva sortito l’effetto contrario: i musulmani che vivevano negli Stati Uniti erano aumentati e lo stesso avveniva in Europa.

Le donne musulmane che ignorano “l’hijab day”

Mentre noi in Occidente celebriamo il giorno del velo islamico c’è chi, in Medio Oriente, musulmana e attivista, lo indossa ma non è stata informata della festa.

Shams, in arabo significa Sole, ha 25 anni, è palestinese, è nata e vive in Giordania, il suo passaporto riporta lo status di rifugiata. Cosa significa per te essere una rifugiata? “Significa che non potrò mai andare in Palestina, il mio Paese”. Eppure, il confine è solo un lembo di terra, bagnato dal fiume Giordano.

Shams non sa che il 1° febbraio si celebra la giornata internazionale del velo islamico, sorride, “Non sapevo che ci fosse un World hijab day, ma in Occidente c’è un giorno per celebrare qualsiasi cosa”. Di certo in Medio Oriente l’hijab non è un problema e non è in cima ai pensieri. “In Giordania c’è la massima libertà. Sono stata io a chiedere a mia madre di indossare l’hijab, avevo 12/13 anni. La religione non c’entrava nulla, lo volevo perché volevo essere come mia madre, lei è molto cool, scrive racconti per l’infanzia”.

Nascondere il capo per gestire i cambiamenti del corpo

Mentre parla Shams continua a coprirsi la fronte con l’hijab, “Forse un giorno ti faccio vedere i capelli” dice “indossare il velo è stato anche un modo per avere maggiore controllo sul mio corpo, mi ha dato un senso di autonomia e di libertà, decido io chi può vedermi. Quando ho messo l’hijab ero adolescente, l’hijab mi ha aiutato a gestire il passaggio da bambina a donna. Ho sempre voluto essere giudicata per quello che valgo e non per quello che sembro o che gli altri vedono di me”.

L’attenzione per la religione è arrivata in un secondo momento,“ Indossare l’hijab ed essere religiosi non sono necessariamente cose collegate, ad esempio io ho cominciato ad interessarmi alla religione in un secondo momento. Ho ancora dubbi, mi faccio molte domande; di certo, approfondire la religione ha rafforzato i legami con la mia cultura. Mi sono sentita parte di una comunità, di un tutto”.

Indossare l’hijab è l’orgoglio delle proprie origini

“In Medio Oriente non sono solo le donne musulmane ad indossare il velo, è un indumento comune alle donne cristiane ed ebree che spesso nascondono i capelli con le parrucche. In Occidente non avete mai dimostrato intolleranza verso il kippah o la parrucca. Per noi musulmane l’hijab non è solo un modo per nascondere il capelli della donna, ma anche un modo di mostrarsi in pubblico: la donna e l’uomo sono invitati a non ostentare ricchezza, ma ad obbedire ad un principio di modestia”.

La narrazione occidentale che identifica nel velo, nell’hijab, il simbolo di un’arretratezza culturale del mondo islamico, cozza con l’immagine di questa giovane donna che invece ne reclama il ruolo identitario. Se in Iran il rifiuto delle donne di indossare l’hijab incontra il plauso dell’Occidente, in Giordania lo scenario cambia, ogni donna è libera di indossarlo, di avere un’idea politica avversa ai regimi teocratici, di studiare e di lavorare. Shams, musulmana e socialista, rivendica il diritto di non dovere scegliere fra le mille sfaccettature che compongono una personalità.

L’istruzione è la chiave di volta della libertà

Il vero pericolo non è pertanto vietare o festeggiare l’hijab ma fornire alle donne gli strumenti culturali e pratici per emanciparsi da una situazione di totale assoggettamento all’uomo. Così come è avvenuto in Afghanistan grazie al progetto Jamila voluto da Pangea, che ha coinvolto più di 7000 donne, un progetto abortito nel 2021 quando i talebani hanno ripreso il controllo del Paese.

La chiave di volta per integrare o controllare, paradossalmente, starebbe proprio nel concedere questa libertà, l’hijab, il chador non sarebbero più “il” problema ma solo una parte dell’abbigliamento.

Livia Gorini
(29febbraio2025)

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