Al Sumud Art fest l’incontro con le donne palestinesi, iraniane, afgane, irachene, protagoniste della trasformazione della politica e della societa’.
Se l’immagine che viene trasmessa dalla grande stampa e dalla tv mainstream e’ soltanto quella stereotipata di vittime piangenti sui cadaveri dei loro figli o guerrigliere armate senza volto pronte a sparare, in realta’ le donne palestinesi sono in prima linea nella battaglia contro l’oppressione patriarcale e coloniale nella quale si trovano a vivere.
L’Occidente, compresi i movimenti femministi europei, le etichetta come vittime indifese e invisibili, da salvare benevolmente dalla loro
stessa cultura o religione, negando loro un’identità e una soggettività complessa.
Le testimonianze
Nel corso della tre giorni dell’ Artfest Sumud al Circolo Arci Concetto Marchesi dedicato alla Cultura palestinese, si e’ svolto l’incontro “ Libere Tutte culture, resistenze, decolonizzazione.”
Il pubblico ha ascoltato le testimonianze di alcune protagoniste delle battaglie femministe decise a resistere anche al genocidio in corso nella loro terra martoriata cercando ostinatamente di sopravvivere, di difendere la propria identita’ la propria cultura e quella dei loro figli, senza rinunciare ai propri obbiettivi, ai propri sogni, alla propria terra, e solidali tra di loro a livello transnazionale.
A unire le palestinesi con le altre donne mediorientali, lo spirito del Sumud che in arabo significa resistenza all’oppressione da parte dei regimi illiberali e oscurantisti nei quali si trovano a vivere.
Fieramente palestinese e fieramente italiana
“Le donne palestinesi si sono ribellate, fin dall’inizio all’occupazione coloniale da parte di Israele entrando a far parte nei primi anni anche dei gruppi armati e organizzandosi in movimenti femministi molto attivi sul territori che anche oggi stanno dando un grande contributo al cambiamento e alla trasformazione della societa’ palestinese – ha detto Maia Issa studentessa di Scienze Politiche a Roma Tre e presidente degli studenti palestinesi”.
Maia che si sente “fieramente palestinese ma anche fieramente italiana” perche’ in Italia e’ nata da genitori profughi palestinesi, non ha piu’ potuto mettere piede in Palestina perche’ ai profughi e’ negato il diritto al ritorno.
Ma anche qui in Italia la condizione degli studenti palestinesi dopo il 7 ottobre si e’ fatta piu’ difficile. “I giornalisti hanno cominciato a chiederci solo se condannavamo l’azione di Hamas o no, senza minimamente pensare a quello che stava succedendo alle nostre famiglie con i bombardamenti di Israele che decimavano le nostre case e i nostri parenti. A come potevamo sentirci noi come esseri umani”.
Da sempre i palestinesi e le donne per prime, sono accusati di terrorismo se si difendono dagli attacchi e dalle invasioni del loro territorio. Ma la lettura occidentale sulle donne palestinesi va decolonizzata in rispetto della cultura e della dignita’ di un popolo e delle donne in particolare che stanno crescendo anche come presenza politica per la loro lotta contro le discriminazioni di genere di un sistema patriarcale e per la sfida contro l’occupazione coloniale.
Diverse ma altrettanto interessanti le altre testimonianze di due artiste palestinesi, la prima Yasmine Al Jarba, fuggita dal campo profughi di Al Burj nella striscia di Gaza prima del 7 ottobre, grazie a una borsa di studio dell’Accademia di Belle Arti di Milano dove si e’ laureata in Visual art e l’altra Sabrina Mukarker fotografa e artista dell’anno nel 2023, che vive in Cisgiordania.
Il sostegno dei miei genitori non e’ stato invano
Yasmine, 27 anni, grazie alla sua determinazione e alla passione per la pittura era riuscita a seguire dei corsi di specializzazione gia’ in Palestina prima del 7 ottobre, tanto da segnalarsi come artista emergente presentando i propri dipinti a olio e acrilico in mostre itineranti.
Poi la borsa di studio e il trasferimento a Milano dove da poco e’ stata raggiunta dai genitori ai quali ora deve pensare lei. Yasmine ha lasciato a Gaza due fratelli e cinque sorelle con i loro figli. Attualmente sta raccogliendo fondi attraverso la sua ultima mostra “Resti di Gaza”, dove condivide le storie di sofferenza e di speranza di chi cerca di sopravvivere nonostante tutto, per sistemare i suoi genitori e per far ricoverare in Italia uno dei due fratelli che e’ stato gravemente ferito. “Voglio rendere i miei genitori orgogliosi di me – ha detto – e dimostrare che il loro sostegno incrollabile nei miei confronti non e’ stato vano”.
Morire piuttosto che vivere lontano dalla terra d’origine
Sabrina Mukarker e’ arrivata in Italia dalla Cisgiordania dove vive con la sua famiglia a Betlemme. per presentare la sua ultima mostra dal titolo Thakira she remembers.
Un termine che in arabo significa memoria . “La mostra – ha spiegato – parla delle vite dei beduini in Palestina e di come loro siano stati sempre dei difensori della memoria di noi palestinesi e di come abbiano rappresentato nel corso degli anni, una difesa contro il ladrocinio della terra e la pulizia etnica”.
E’ stata la prima in Palestina a specializzarsi sui ritratti di bambini appena nati e sulle famiglie concentrandosi- su identita’ palestinese, maternita’ memoria. “Sono foto – ha spiegato che sono necessarie per conservare la memoria dei giorni piu’ felici vista la perenne insicurezza nella quale viviamo anche nel Westbank”.
“La vita in Cisgiordania – ha raccontato Sabrina – e’ estremamente dura ogni giorno anche se non si puo’ paragonare con cio’ che sta succedendo a Gaza. Non c’e’ acqua, non abbiamo liberta’ di movimento, non c’e’ denaro, ne’ opportunita’ di lavoro, ne’ alcuna forma di sicurezza perche’ non esistono controlli ai confini.
Infatti le invasioni da parte dei coloni con spari nella strada sono quotidiane”.
Al suggerimento di lasciare la Cisgiordania con i suoi figli e di vivere in Italia pero’ Sabrina risponde: “preferirei morire piuttosto che vivere lontano dalla mia terra, dalla memoria della mia famiglia.
Voglio che i miei figli crescano in Palestina, parlino arabo, conoscano il profumo e il sapore del cibo palestinese che conservino la loro identita’ culturale”.
Essere femminista in Iraq
Un messaggio di pace e’ stato quello in video della irachena Zahra Waleed attivista di 27 anni. Zahra ha partecipato alla rivoluzione d’ottobre del 2018.
Collabora con molte organizzazioni politiche tra le quali l’Iraqi Social Forum.
“Essere una femminista e un’attivista in Iraq – ha detto – significa affrontare campagne diffamatorie, discorsi d’odio e restrizioni da parte delle autorita’politiche e religiose.
Significa mettere in discussione tradizioni radicate nella discriminazione e nell’oppressione delle donne, significa contrastare sistemi patriarcali che ancora oggi dominano. Per questo oggi ci tengo a dire che noi irachene siamo solidali con tutte le donne libere del mondo e auguriamo pace, forza e liberta’ a chiunque abbia il coraggio di alzare la voce per difendere i diritti umani”.
Le scuole segrete e clandestine delle donne in Afghanistan
Diritti umani calpestati in particolare quelli che riguardano le donne, in Afghanistan, una terra dimenticata. Ma anche in questo caso le donne correndo rischi enormi, si sono unite e hanno fondato il RAWA Revolutionary Association of the women of Afghanistan un movimento di resistenza che si occupa di educazione scolastica, segreta e clandestina .
Le donne afgane sono una “forza centrale della lotta nazionale per la liberta’ in prima linea nelle battaglie progressiste, non solo come partecipanti, ma come leader – ha detto in un audio un esponente del movimento tradotta da Alessia Ghiraldo del Cisda (Coordinamento italiano donne Afghanistan) ma la lotta per la liberazione è tutt’altro che finita e richiede unità, viva convinzione e impegno costante nella costruzione di un mondo più equo, senza crudelta’ dove vengano rispettati i diritti delle donne e la dignità umana”.
Le donne in Iran al centro della lotta per la liberta’ dal regime islamico
Con Parisa Nazari attivista in Italia del movimento Donna Vita liberta’ si e’ chiusa la carrellata di interventi.
“E’ vero – ha detto – che oggi le donne anche in Iran sono portatrici di cambiamento Sono in contatto da 20 anni con le attiviste sociali e culturali che hanno fatto un lavoro enorme trasformando un paese che nel ’79 con la rivoluzione islamica aveva tolto tutti i diritti alle donne, nell’Iran contemporaneo che e’ molto diverso a livello di societa’ civile, pur in presenza dello stesso regime brutale che continua a condannare a morte i dissidenti. Ma le donne iraniane, affiancate dagli uomini per la prima volta, sono scese in piazza facendo proprio lo slogan curdo “Donna vita liberta” e non torneranno indietro nella difesa dei propri diritti”.
Testo di Francesca Cusumano
Foto di: Sabrina Murkaker Jasmine Al Jarba e Carla Dazzi
(3 luglio 2025)
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