Sidi Larbi Cherkaoui, “ogni persona è una cultura”

Sidi Larbi Cherkaoui, direttore artistico del Festival Equilibrio, di fronte all'Auditorium
Sidi Larbi Cherkaoui, direttore artistico del Festival Equilibrio, di fronte all’Auditorium

Più culture, più musiche, più ballerini e più danze: il percorso artistico di Sidi Larbi Cherkaoui – come danzatore, o meglio performer, coreografo e direttore del Festival Equilibrio – sembra avere una caratteristica costante: il mescolamento.

Cherkaoui “si diverte a lavorare con performer che hanno differenti tecniche, corpi, età, nazionalità e linguaggi, ma piuttosto che cercare di unificarli, lui smuove le loro differenze fisiche e personali. Il risultato non è una qualche sentimental rainbow community, ma una molteplice distesa di idiosincrasie, allusioni, storia, mitologia, vita quotidiana e desideri innati. Anche nei duetti Cherkaoui sceglie partner che sono differenti da lui in modo evidente” scrive Sanjoy Roy sul Guardian. Ma tutto questo fa parte della realtà di Cherkaoui, o Sidi Larbi, come viene più spesso chiamato: nato nel ’76 a Anversa in Belgio – il più giovane direttore di un Festival italiano – ha origini marocchine. “Non mischio le culture attivamente, cioè non lo faccio perché è una cosa che dovrei fare, è più perché appartiene alla mia realtà e perché noto di essere attratto da persone che hanno qualità differenti”, cosa che più facilmente succede quando queste provengono da posti diversi. Ma Sidi Larbi non parla di nazioni: “penso che ogni persona sia una forma di cultura. Ovviamente abbiamo cose in comune, similarità, ma viviamo in un mondo così individualistico che sento che siamo culture in noi stessi. Insomma sono più interessato all’energia delle persone che alla loro provenienza. Non mi importa veramente da dove vengono, ma se sento connessione. È di questo che io parlo attraverso la mia arte”.

Nei suoi spettacoli si riflette questo interesse per i differenti modi in cui le persone si connettono: ritornano figure particolari, come il padrone e la bambola, le ombre, creature gemellari composite. Anche questo deriva dalla sua esperienza: “Puoi notare le relazioni tra i comportamenti della gente che viene dal Canada o dal Giappone. Non è tanto il paese, il paese cambia con la storia, il Belgio per esempio è un paese recente (costituito nel 1839, ndr), prima non esisteva. Allora realizzi che i paesi sono trasformativi, ma il territorio è interessante perché chi da sempre vive in un’area, come in Sicilia o in Sardegna, ha in comune qualcosa, un’atmosfera che crea una forma di cultura che va oltre la nazionalità: ha a che fare con ciò che hai intorno, i paesaggi, le montagne, queste cose, queste energie alla fine creano ciò che sei e l’arte che fai”.

“Babel” di Sidi Larbi Cherkaoui, Damien Jalet and Antony Gormley. Foto di Tristram Kenton

A soli 19 anni Sidi Larbi vinse il primo premio in un concorso di danza nazionale con una performance che mescolava vogueing, hip-hop e danza africana. Da allora ogni suo spettacolo ha esplorato mondi diversi, dalle tendenze più contemporanee (Rien de Rien, 2000), alla danza bengalese unita al flamenco (Dunas, 2009), alla danza indiana (Play, 2009), per non parlare dell’emblematico BABEL (words) del 2010. Il suo ultimo lavoro, Tezuka, si affaccia sul Giappone. Al di là della sua curiosità poliedrica, non sembra un caso che la traduzione letterale del suo cognome arabo sia “uomo dell’Est” e che Eastman sia proprio il nome che ha dato alla sua compagnia di danza. Sidi Larbi ama particolarmente il Giappone: “i giapponesi, forse proprio perché vivono in un’isola che è così piena di natura, hanno una forte relazione con la scienza e il futuro, allora si crea questa interessante mistura tra l’essere enormemente sensibili alla natura e fortemente proiettati sulle tecnologie. Molte culture sono arroganti con la natura e i fenomeni climatici, mentre dovremmo capirla e accettarla. In Belgio magari ci lamentiamo continuamente del tempo, ma non abbiamo terremoti, la natura è qualcosa che sta lontano, in Giappone invece è chiaro il riconoscimento e la conoscenza che la natura è più forte della civilizzazione. E quindi puoi crearla intorno alla natura, ma non puoi dominarla. Questa è una particolarità che ho notato nelle persone giapponesi e questo crea la loro bellezza. La neve di questi giorni a Roma è fantastica, ma ovviamente rallenta tutto, influenza le persone, i bambini non vanno a scuola. E già da questo noti quanto è incredibile la potenza che ha la natura. Ovviamente non si vuole morire per questo: lo tsunami dell’anno scorso è stato così estremo. Amo il Giappone, ed è terribile vedere un paese che ami così ferito. Ma questa è la realtà della vita. Le persone soffrono ovunque per migliaia di ragioni. Ma quando le vivi da vicino senza la tv, le senti. Siamo molto protetti dai traumi, così quando improvvisamente ti trovi lì dove questi succedono, ti rendi conto di quanto puoi essere cieco. L’arte allora può aiutare a creare un ponte che ti aiuta a realizzare che dovresti avere maggiore empatia per le cose che succedono fuori agli altri, senza soffrire, ma aumentando la tua capacità di capire, ispirandoti a fare qualcosa”.

Sidi e Shantala in “Play” (2009)

Ma perché è così importante per te mescolare culture? “La tua domanda è veramente complessa, perché dipende da come tu percepisci la cultura, cosa consideri cultura. La cultura è estremamente trasformativa, si muove continuamente, non la puoi cogliere perché non è mai la stessa. Il passo successivo è già cambiato. Quindi per esempio la mia immagine della cultura indiana è vecchia di due anni, perché due anni fa ho lavorato con Shantala Shivalingappa, danzatrice indiana. Essa si evolve, dovresti seguirla a ogni passo per comprenderla. Puoi prendere una Polaroid pensando di averla capita, ma ciò che capisci è solo una fotografia, non sai nulla di ciò che è successo prima né dopo. È importante allora capire che qualsiasi cosa tu abbia in testa è sempre e solo una fotografia e mai il racconto. Per capire il racconto dovresti ascoltare di più, anche le tragedie e le idee. Se sei fuori hai solo un’immagine, ma quello che ho cercato di fare nella mia vita è non essere mai turista. Voglio essere qualcuno che si trasforma a seconda di qualsiasi cosa mi succeda, voglio cambiare. Così quando sono in Giappone sono una persona, in Italia sono un’altra persona, semplicemente non voglio essere sempre lo stesso. La cosa talvolta funziona, talvolta nuove cose ti fanno comportare diversamente, altre volte ti attacchi a un’unica cosa che conosci. Non penso che ci sia un modo giusto o sbagliato, ma credo sia importante la capacità alla flessibilità, la conoscenza dei tuoi limiti. Così lavoro con gente che proviene da luoghi diversi anche perché mi fa vedere altri modi di vedere le cose, e li rispetto: mi danno un modo completo di capire ciò che sta succedendo, aspetti che non sarei capace di vedere con i miei soli occhi, perché sono limitati dai pregiudizi, dalle idee preconcette. Qualcuno mi ha detto ‘il mondo è così’ e io ho realizzato, ‘oh my god, è possibile’. Tutto questo oltretutto è importante per l’arte: essere intuitivi, creativi e aperti, non chiudersi nemmeno sulle buone idee, come dire ‘i giapponesi son persone carine’. A Tokyo, Osaka, nell’isola di Sado, c’erano culture diverse in ogni città. Lo stesso succede in Italia, Venezia non è come Roma o come la Sicilia. Sentire nuovi accessi penso sia importante, ti fa sentire bene e più riesci ad avere queste visioni d’insieme meno giudichi. Più comprendi, meno punti il dito dicendo ‘questo è sbagliato’. A quel punto capisci il senso di quella persona”.

Giulio D’Anna e suo padre in Parkin’son (2011)

Secondo il tuo punto di vista dunque tutto è connesso: in un’intervista hai dichiarato che anche i cambiamenti politici e sociali possono influenzare la creatività della danza… com’è secondo te la danza italiana oggi? “Le parole chiave sono due: connessione e fiducia. Bisogna trovare connessioni e far sì che gli artisti credano nel sistema e abbiano fiducia uno dell’altro. Vedo in Italia molti talenti, ma il problema è farli connettere, farli lavorare insieme. In Belgio ci incontriamo, c’è un sistema che permette agli artisti di lavorare assieme, ma capisco che il nostro è un paese molto più piccolo dell’Italia. Qui spostarsi, prendere un treno ogni volta, rende le cose difficili e così si creano le disconnessioni. Bisogna dunque trovare anche qui un modo per connettere le persone, così la magia può accadere: accade anche lavorando da soli, ma l’unione è speciale. A Bruxelles per esempio Anne Teresa de Keersmaeker ha creato una scuola che è stata particolarmente importante negli anni ’90 quando unì in sé stessa voci forti provenienti dall’estero, come Trisha Brown, Pina Bausch, Merce Cunningham… voci alte e forti vicine a lei. Questo ha dato l’opportunità a me e ad altri giovani artisti di scegliere e di scegliere intelligentemente. Anne Theresa crede in un sacco di cose e quindi io posso credere in una combinazione di cose e posso sorreggermi su di esse. In questo modo ho creato la mia identità. In Italia non è possibile, ogni cosa è lontana e difficile, puoi scegliere una città, ma devi anche proteggerti, non puoi girare come una trottola per tutto il paese. Emio Greco – ex contadino di Brindisi, praticamente sconosciuto da noi, una delle figure più innovative ed eccentriche nel panorama della danza contemporanea, ndr – non è in Italia, è in Olanda. Anch’io lotto per rimanere in Belgio, molte cose mi spingono ad andarmene. Ora credo che resterò altri due anni e poi vedrò se funziona. Ma la differenza tra me ed Emio sta nel fatto che il Belgio cerca di trattenermi, qui nessuno ti chiede di rimanere e questo è un peccato. Nessuno ha chiesto a Emio di restare in Italia e ora l’avete perso. Bisogna dare ai talenti l’opportunità di diventare persone rappresentanti di una cultura. Emio è italiano, ma giustamente ha cercato le possibilità che meglio calzavano le sue necessità e le ha trovate in Olanda. Anche Giulio D’Anna – vincitore del Premio Equilibrio 2011 – che crea opere estremamente interessanti e concettuali ha studiato in Olanda. Sono curioso di vedere cosa ha trovato lì e cosa farà. In fondo non sai mai il futuro dove ti può portare. Ma bisogna aver cura di queste persone. So che è facile da dire per me: sono un po’ straniero e parlo da un festival internazionale che mi permette di pensare internazionalmente, capisco che il livello nazionale è differente. Quello che possiamo fare noi come Equilibrio è diventare più proattivi: non solo aspettare le candidature, ma andarle a cercare. La crisi si sente, ogni anno il livello è sempre più debole, quindi è necessario aiutare i giovani talenti… please come to perform!”

Alice Rinaldi(9 febbraio 2012)