Lunedì 29 agosto. Il mese del Ramadan, quest’anno grosso modo corrispondente al nostro agosto, sta giungendo al termine. L’iftar è il momento serale di rottura del digiuno quotidiano che caratterizza questo mese sacro per i musulmani.
“Chiedi a loro, ti portano in giro loro”, mi dice Aziz allontanandosi .Entrambi egiziani, sopra i 40, nella grande Moschea, uno completamente scalzo, l’altro con dei calzini, accovacciati nella prima fila di preghiera, segnata a terra, trasversale, dall’ultimo fregio chiaro dell’arazzo che ricopre completamente il pavimento. Mi invitano a sedere e si documentano minimamente su Piuculture.
Una montagna e un fiume. Alcuni uomini girano con dei cesti per distribuire quello che nella tradizione è il cibo del profeta nel deserto, i datteri. Tre quattro a testa, staccati direttamente dall’amalgama gelatinosa che li tiene insieme. In questo mese ho incontrato gruppi musulmani in varie occasioni e ho mangiato i datteri per la prima volta: inizialmente stranito, ora diventatone un piccolo estimatore, tanto più che sono delle bombe energetiche.
L’uomo che ci porge i datteri passa anche un bicchiere d’acqua a testa nel quale mi sembra i quattro occhi dei due uomini egiziani si perdano un po’: anche gravati dai gradi del digiuno agostano credo vedano in quel banale bicchiere di plastica qualcosa che io provo a imparare dai loro sguardi e dai gesti lenti.Poi un tovagliolino bianco per ognuno, da metter sotto il tutto, a imbandire altrettante piccole tavole che, comparse in una manciata di secondi sull’arazzo, dovranno ovviamente attendere la fine del rito per esser violate.
In attesa dell’inizio del discorso, uno dei due egiziani … “Una montagna, un fiume cosa sono? Sono la natura certo, però per noi quello è un segno di Dio, non è solo la natura. In definitiva questo è l’Islam, una cosa semplice, Marco, non complicata” Poi con un qualche dolore sul volto “Se ti occupi di intercultura forse puoi capire, c’è una cosa che mi rende triste. Ho due figlie e cosa sia l’Islam non sto riuscendo a farlo capir loro: non si sentono coinvolte. Per me sarebbe molto importante”. Un altro egiziano, Mohamed, sorride, saluta, si siede e si unisce al piccolo gruppo: da 35 anni in Italia e con una figlia che ora si sta specializzando in medicina legale. L’imam comincia a salmodiare
Domani festa. Finita la preghiera, 20:15 circa, l’imam si confronta a bassa voce con un’altra persona. Poi parla brevemente in arabo al microfono.“Domani è festa, il digiuno è finito” mi spiegheranno successivamente. All’imam è giunta l’informazione che è stato astronomicamente concordato che il mese di digiuno finisce oggi e non domani.
Dentro al tendone. Fuori dalla moschea, accompagnato dai tre egiziani si raggiunge il tendone dove tutto il mese si è svolto l’iftar. Saranno 10 metri per oltre 25 con cinque filari di tavoli in plastica distribuiti per tutta la lunghezza: le sedie piene e l’aria del vociare.Mi siedo. L’harira, cioè una tipica zuppa marocchina con ceci, una patata, del pollo, del pane, una pesca e ovviamente gli onnipresenti datteri. Buon appetitoQuattro giovani dalla Somalia e uno dal Ciad, queste sono le nazionalità dei ragazzi con cui mi intrattengo mentre mangio. Tutti sono più o meno dal 2008 in Italia con asilo per sussidiarietà. Non a caso infatti conoscono anche Zakaria, per altro somalo come molti di loro. “Chi? Quello che fa anche il giornalista? Sì sì …” mi risponde Mohamed, uno dei somali, mentre col ciadese Hassan, segaligno, occhietto vispo e sorriso facile, di tanto in tanto recupero un po’ di impolverato francese.Qui si mangia tutto con le mani, per Mohamed non è strano, in Somalia le posate non sono la routine: dopo il pollo mi guardo le mani, Mohamed sorride, mi ci inclina un bicchiere d’acqua sopra, Hassan offre il fazzoletto. Mouchoir, ecco quella parola che non ricordavo… servizio completo.Siamo rimasti solo noi: Mohamed mi dice che siamo noi italiani che a tavola ci pernottiamo pure, loro no. Rinuncio alla pesca, me lo merito, ho parlato troppo e ho solo un’oretta da far fruttare con questi ragazzi. Dopo mi scapperanno per l’ultima preghiera cui seguirà solo il sonno visto che domattina alle 8 riverranno qua per la grande festa.
Luci fioche tra le palme. Su un piccolo cordolo di cemento che circonda una delle tante gentili macchiette di prato inglese del giardino della moschea, qualche palma più in là, siamo seduti io, Mohamed e poco dopo Hassan. Sfodero il pc che fino a quel punto avevo tenuto abbastanza mimetizzata – “l’alta tecnologia” in certe situazioni pare sempre un pugno in faccia – e faccio loro battere il proprio nome per esser sicuro di non sbagliare.
Ad Hassan è andata un po’ meglio: con la Libia – tipico stato ponte per l’Italia – immediatamente a nord del suo Paese, non si è fatto la traversata nel deserto che invece generalmente tocca a somali ed etiopi. Mohamed, oltre che con i connazionali, infatti con gli etiopi si è fatto buona parte della fuga ; in Etiopia starà in carcere un mese per mancanza di documenti. Poi la zona desertica della Nubia, quella che sta nel Sudan: 25 giorni. “I primi 7 giorni pasta, poi per altri 7 datteri, poi avanzi di datteri da parte di chi ne ha ancora … l’acqua gli ultimi 10 giorni dosata con gente che casca mentre aspetta le propria razione di gocce”. Per alcuni musulmani mangiare datteri, digiuni nel Ramadan, è un viaggio psicofisico a ritroso: non è solo essere spiritualmente vicini al sacrificio di un profeta, vuol dire anche commemorare il proprio personale attaccamento alla vita. Rielaborare quei momenti in cui l’esito non era affatto scritto.“Morti nel deserto?”, domando. “No, fortunatamente no”. Si muovono con quei grossi camion, semi carri bestiame. Se si rompono, ti fermi e aggiusti. Se si rompono proprio, hai chiuso. Quello di Mohamed se s’è rotto, si è ripreso. La cosa più facile, mi dice, alla fin fine è proprio la traversata mediterranea. “Non devi lottare tanto: una volta salito in barca o muori o arrivi”
Hassan ha il problema tipo del richiedente asilo italiano. Hassan in confronto, con la traversata via mare e poco più, viene quasi da una situazione “fiabesca” e forse il suo sorriso frequente dipende anche da questo. In Libia ci si è fermato due anni: ha lavorato negli alberghi, quello che, professionalmente parlando, è rimasto il suo ambito anche qui in Italia.Sull’Italia poi l’opinione di entrambi è la stessa ed è un’opinione che si inserisce in quel che in realtà pensano molti richiedenti asilo: “Ora lavoro in un albergo (di lusso, ndr) come facchino – dice Hassan – ma tra tre mesi il contratto finisce. Solo precariato. Io qui posso sopravvivere sì, ma costruirmi una vita, una vita proprio no. Voglio provare l’Europa, vado a tentare in Germania. Amo viaggiare, l’ho sempre fatto, anche prima di allontanarmi dal Ciad. Qui aprire un mutuo è impossibile”. Vari stati del Nord Europa invece riescono socioeconomicamente a permettere ai richiedenti asilo di concretizzare un vero e proprio progetto di vita.
Marco Corazziari(8 settembre 2011)