“Il mio amore per il cinema risale all’infanzia, avevo quattro anni quando ho visto il primo film, meravigliata seguivo sullo schermo le persone che si muovevano, era un sogno. Mi teneva tra le braccia Guney Yilmaz, amico di famiglia, guardavamo il suo film Il gregge.” Yilmaz è il regista curdo vincitore con Yol della Palma d’Oro nell’82 al festival di Cannes. E’ probabile che si debba a lui, che ha trascorso parte della vita nelle prigioni turche prima di fuggire in Francia, anche la passione di Hevi Dilara per la politica.
27 gennaio Giorno della Memoria. Hevi è una dei cinque registi di Benvenuti in Italia realizzato con altri giovani migranti: Aluk Amiri afgano, Zakaria Mohamed Alì somalo, Hamed Dera burkinabé, Dagmawi Yimer etiope.Il film, prodotto dall’”Archivio delle memorie migranti” (AMM) con il sostegno dell’Open Society Foundations e della Fondazione lettera27, sarà proiettato il 24 gennaio alla stampa alla Casa del Cinema, Largo Mastroianni 1 e il 27 gennaio al pubblico nelle cinque città dove sono state girate le storie: Roma, Milano, Napoli, Venezia, Verona. L’appuntamento nella capitale è alle ore 20:30 al Piccolo Apollo, in via di Conte Verde 51, alla presenza di: Hevi, Saba Anglana, Monika Bulaj,Giulio Cederna, Beritan Baris Encu, Theo Eshetu, Ali Baba Faye, Agostino Ferrente, Aline Hervé, Renaud Personnaz, Giovanni Piperno, Alessandro Portelli. La scelta di proiettare il film il 27 gennaio, Giorno della Memoria, “è un modo di ricordare, accanto alla Shoah, il crescente bisogno di riflessione sulla memoria dell’esclusione e dei respingimenti che ha caratterizzato tutto il ventennio passato – dalla nave Vlora che entra a Bari nel 1991 con 20.000 albanesi subito riportati in patria, alle tragedie ripetute degli sbarchi di profughi provenienti da Grecia, Turchia e Libia, fino all’incendio del campo Rom a Torino e all’omicidio di senegalesi a Firenze. Un unico filo conduttore, una stessa memoria di intolleranza razziale e di esclusione, con cui riteniamo di doverci confrontare nell’Italia di oggi” spiegano i produttori.In fuga. Ed è intolleranza razziale e repressione che hanno portato Hevi, ventenne, a fuggire dalla Turchia “amavo cantare in curdo, la mia lingua, ma era proibito. Era il 21 marzo 1995, con un gruppo musicale festeggiavamo il nostro capodanno, arrivò la polizia per arrestarci. Nei giorni successivi il batterista morì in carcere, dissero per infarto, era un giovane grande e forte. Noi curdi lottavamo e lottiamo per rivendicare un’identità e una cultura, perché le minoranze abbiano riconosciuti i loro diritti. Non siamo separatisti, sarebbe anacronistico in un mondo in trasformazione dove sempre più spesso chi abita in uno stesso paese ha origini diverse. In Turchia i curdi sono 25milioni, un terzo della popolazione. Quando sono uscita di prigione, dove ero stata torturata, la mia famiglia pagò cinquemila marchi per farmi partire. Le fughe erano assecondate, era un altro modo per eliminarci. Sono arrivata in Italia da Spalato, nella ex-Yugoslavia, l’ultimo tratto è stato sotto a un tir, eravamo in sei, ero l’unica ragazza.Italia. Mi sono svegliata in ospedale a Milano, un poliziotto mi ha spiegato dove ero e dato i soldi per telefonare, avevo il numero di uno zio che mi ha indirizzato a Roma. La comunità curda all’estero ha legami forti ed è solidale, arrivata nella capitale ho fatto richiesta di asilo politico. L’Italia non l’ho scelta, il mio obiettivo era allontanarmi. Nel vostro paese, rispetto al nord Europa l’inserimento dei migranti trova appoggio su uno stato sociale forte, ma di positivo c’è che la società civile è molto aperta, accogliente.Festival. L’essere rifugiato politico per me non è stato un vantaggio, ho combattuto per inserirmi.” Hevi Dilara è direttore artistico di Europa Levante, associazione impegnata su diversi fronti per diffondere la cultura curda e organizza da quattro anni il Festival del Cinema Curdo a Roma “Nel 2010 una ragazza somala che avevo conosciuto nel progetto LogOut mi ha informato che l’“Archivio delle memorie migranti” selezionava giovani rifugiati di nazionalità diverse per insegnare l’uso della cinepresa e realizzare documentari. Facevo l’attrice, ma non avevo esperienza dietro la macchina da presa, ho fatto il colloquio e sono stata scelta. Ho perso la prima lezione del corso perché quel giorno dovevo girare alcune scene de La contessa di Castiglione. Quando ho raggiunto il gruppo erano già per strada con la telecamera per una prova di girato, mi hanno spiegato rapidamente l’uso della macchina, come zoommare e sono partita. Ho seguito un rifugiato, Bilal, ho cercato di trasmettere il suo dolore, il risultato è stato buono, l’insegnante si è stupito che non avessi mai girato nulla”.Benvenuti in Italia. “Nel progetto dell’Archivio abbiamo lavorato in coppia, ci alternavamo nei ruoli, uno faceva il fonico mentre l’altro girava, io sono capitata con Hamed Dera del Burkina Faso. L’arte non ha nazionalità, unisce tutti, per noi è stato un modo per conoscere la cultura dell’altro. I burkinabé mi sono sembrati molto diretti, naturali, capaci di conservare le loro tradizioni. La protagonista del documentario di Hamed è una donna forte e combattiva, ma non trova solidarietà fra i suoi connazionali, questo mi ha molto stupito perché tra i curdi non sarebbe così.La vita per lei. “I protagonisti della mia storia mi sono venuti incontro con una telefonata da Bruxelles: mi chiedevano di aiutare una coppia curda che aveva molto sofferto, lei era stata in carcere come suo padre, condannato a quarant’anni di prigione. La prima cosa è stata aiutarli nella richiesta di asilo politico, poi gli abbiamo trovato una sistemazione in una struttura a Ercolano. Malgrado davanti a loro il golfo di Napoli fosse meraviglioso, non riuscivano ad apprezzarlo. Avvertivo la loro sofferenza e volevo renderla sullo schermo, erano dei ‘pesci fuor d’acqua’ come diciamo noi. Le sensazioni che provavano sono comuni alla maggioranza dei migranti, un sentimento universale: è il cominciare a vivere in una nuova terra senza dimenticare la propria patria e quello che si è lasciato. Abituarsi alla quotidianità, alla vita non facile dei centri di accoglienza, ridotti a vivere in spazi ristretti, la propria casa limitata a un letto, sono situazioni che fanno pensare che essere liberi fisicamente non sia sufficiente. La vera libertà è superare il passato doloroso, senza cancellarlo”.Per richiedere il film per eventi e proiezioni pubbliche scrivere a amm.segreteria@gmail.com
Irene Ricciardelli(19 gennaio 2012)