Roma globale, vocazione o necessità?

Quando gli chiesero “come hai fatto?”, rispose “c’ho provato e ci sono riuscito”, William Kamkawamba, il ragazzino di 14 anni del Malawi che da solo costruì un mulino a vento per dare energia elettrica alla sua famiglia, per non dover lavorare la terra tutta la vita.

Lo stesso spirito ottimista guida l’associazione Vocazione Roma, che ha organizzato il workshop Una marcia in più – Il valore degli imprenditori stranieri a Roma, lunedì 26 marzo 2012 presso lo spazio Shari Vari a Torre Argentina. Quattro pilastri che intendono trasformare Roma in una città – finalmente – globale: territorio, impresa, talento e professioni. Sul sito è possibile avere tutte le informazioni riguardo il Premio Vocazione Roma, un concorso di idee che consenta a giovani creativi under40 di partecipare attivamente a questa trasformazione, “perché domani si costruisce oggi”.

Dal 2011 al 2012 gli stranieri residenti a Roma e provincia sono aumentati. L’area romana ha un’incidenza degli stranieri sulla popolazione residente pari al 10,6%, superiore alla media nazionale che è del 7,5%. C’è un’elevata concentrazione di ragazzi tra i 18 e i 39 anni, soprattutto in provincia dove sono quasi il 50%, poiché qui tende a stabilizzarsi un’immigrazione di tipo europeo alla ricerca di un accesso facilitato al bene casa, con progetti familiari di integrazione e stabilizzazione. A Roma invece le presenze sono più extraeuropee e più spesso temporanee. La comunità prevalente nella provincia di Roma è quella rumena, il 34,7% del totale: l’ingresso della Romania nell’Unione Europea, avvenuto nel 2007, ha ovviamente favorito i trasferimenti. A Roma invece sono poco meno di un quarto, mentre i filippini sono la comunità più presente con il 9,8%, seguiti da bengalesi (4,9%) e cinesi (4,1%).

Mohamed Abdalla Tailmun della Rete G2 (al centro del palco), Francesca Paci de La Stampa, moderatrice dell’incontro (a destra), Paolo Morozzo Della Rocca della Comunità di Sant’Egidio (in piedi)

5mila nuovi imprenditori in due anni, molti under30, ma gli italiani non reggono la competizione. I dati, elaborati dalla Camera di Commercio di Roma, sottolineano una realtà in particolare che colpisce: il numero delle imprese guidate da stranieri a Roma è cresciuto del 22,3% rispetto alla sostanziale crescita zero delle aziende condotte da italiani. Gli imprenditori stranieri sono inoltre più giovani, l’11% del totale rispetto al 5,4% tra gli italiani. Marco Buemi, esperto Unar (Ufficio Nazionale Antidiscriminazioni Razziali) della Presidenza del Consiglio dei Ministri, sottolinea il “contributo straniero al Pil del 12%, su 400mila imprese in Italia e 30mila tra Roma e provincia”. E una movimentazione demografica che si attesta sull’“1,8 figli a testa, contro gli 1,2 degli italiani”. Dando un’occhiata ai dati, le principali nazionalità dei titolari d’impresa nati all’estero sono quella rumena (19,1%) e bengalese (18,6%), seguono i cinesi, marocchini ed egiziani. Indra Perera, originario dello Sri Lanka, è presidente del CNA World, “uno sportello che dà tutte le informazioni necessarie per aprire imprese. Quello che spesso si registra sono controlli ‘particolari’, discriminatori rispetto a quelli che vengono condotti sulle imprese italiane. Il controllo nasce dalla paura e diminuisce l’integrazione”.

Ma il bello è che “un terzo delle nuove imprese straniere in Italia è gestito da donne”, sottolinea Nicola Zingaretti, presidente della Provincia di Roma, come nel caso di Lana Kaplanovic e Aida Ben Jannet, presenti al workshop con le loro testimonianze. Lana, serba, laureata in Studi Internazionali presso l’Università di Malta, è co-fondatrice e PR manager del progetto My worker.it, una società e un portale web di domanda-offerta di lavoro per immigrati.

Aida Ben Jannet, titolare dell’Autoricambi Aida SAS

Anche Aida ci ha provato e ci è riuscita. Aida, nata a Tunisi nel 1970, in Italia dal 1995, inizia a lavorare come segretaria per l’Autoricambi Montesi, tra Roma e Fiumicino. Nel 2001, dopo l’11 settembre, arriva la prima crisi che indebita l’officina a stretto contatto con le agenzie di viaggio, nel settore di pullman e furgoni. Il suo datore di lavoro intende chiudere. Aida decide allora di provarci, come William. Rileva l’azienda che chiama Autoricambi Aida SAS, cercando di risollevarla, finché in seguito a una seconda crisi, arrivata per tutti nell’anno 2007, presto specializza l’officina in ricambi per auto d’epoca: “un bel giorno ho visto questi vecchi pezzi, bellissimi, dimenticati in magazzino. Ho deciso semplicemente di metterli in esposizione, e così a fianco ai ricambi moderni, abbiamo riattivato un vecchio mercato”.

A questo punto mi preme sapere come Aida si spieghi la crescita in Italia delle imprese straniere rispetto alla decrescita di quelle italiane: “sono due mondi diversi che bisogna paragonare: l’imprenditore italiano è già nato col bene, l’impresa è spesso un’eredità familiare, allora c’è chi riesce a portarla avanti e chi no”. E questa è la vocazione. “Una crisi, il calo di lavoro, la paura spezza le gambe, uccide la voglia di andare avanti. Lo straniero spesso non ha beni in mano, ma ha il coraggio e la voglia. Lo stesso spirito dei ‘vecchi’ italiani che hanno vissuto la guerra, i nonni di chi oggi ha ereditato imprese. Chi è già abituato a poco, è spinto ad andare avanti, anche se piano piano, per avere di più. La fame dà la voglia di crescere, la paura l’ha già conosciuta. E non potrebbe fare altrimenti, perché nel frattempo è diventato straniero nel proprio paese”. E questa è la necessità.

Tornando agli italiani, il primo progetto concreto su Roma è presentato da Francesco Karrer, architetto: un modello per la riqualificazione dell’area di piazza Mancini, a Flaminio, che è “come tre campi da calcio asfaltati, da trasformare con nuove funzioni. Aree verdi, sviluppo immobiliare in altezza, due piani interrati di parcheggi, piazza coperta per ‘stazione viaggiatori’ del nodo di scambio”. Nell’ambito della riqualificazione di piazza Mancini, dice Simone Santi, console onorario del Mozambico a Milano, “abbiamo ideato un expo permanente da destinare alla business community internazionale di Roma, allo staff di ambasciate, agenzie di attrazione d’investimento e di marketing territoriale. Un centro dove ci si occupi di start-up, dove si possa visitare il mondo da Roma, dove si possano accogliere gli eventi culturali esteri e organizzare visite scolastiche. Roma è la città al mondo con il più alto numero di ambasciate, che è una grande risorsa. La nostra idea, one site-one world, intende aiutare l’Italia a scalare la classifica che valuta la facilità di fare affari in 183 paesi: oggi è all’87esimo posto”. Oltretutto la realtà si sta ribaltando: “i paesi che erano ‘i problemi del mondo’ stanno diventando la soluzione, basti pensare alla Polonia in Europa, il Brasile in America, il Ghana e il Sadc (Southern African Development Community) in Africa, l’India, la Cina e il Vietnam in Asia”.

Un problema è che oggi la discriminazione si sta allargando. “Lavoriamo sull’anti-discriminazione etnica e razziale”, dice Buemi dell’Unar, “ma oggi gli ambiti sono molteplici. Più di mille casi denunciati quest’anno e due settori critici: il mondo dei media e quello del lavoro. Nel primo caso, anche se si sono fatti dei passi avanti grazie alla Carta di Roma, esistono ancora due pesi e due misure, per esempio se a investire un uomo è uno straniero o un italiano. Nel primo caso solitamente si attua ‘la gogna mediatica’. Riguardo l’altro settore critico, abbiamo registrato più del 20% delle denunce, del quale, il 73% riguarda l’ingresso nel mondo del lavoro”. Il Ministero organizza ogni anno l’iniziativa Diversità al lavoro, dove si è capito, per esempio, che le ‘odiate’ multinazionali sono in realtà le più sensibili al fenomeno: utilizzano infatti i diversity manager”, preparati proprio per conoscere e valorizzare le differenze tra le persone.

Non sono “semplici badanti”. Il console Santi dice che “l’italiano tende a ‘preservare’ i propri bambini, mentre uno studio ha verificato che ragionano più velocemente se a scuola hanno un’interazione interculturale. Allo stesso modo impieghiamo gli stranieri soprattutto nelle costruzioni e nei trasporti, o come semplici badanti, quando 150mila stranieri in Italia sono altamente qualificati”. Ma Paolo Morozzo Della Rocca, della comunità di Sant’Egidio e docente di Diritto dell’Immigrazione dell’Università di Urbino, non è molto d’accordo, ribadendo in qualche modo la doppia prospettiva che vede anche Aida: “dobbiamo smettere di considerare il servizio alla persona un lavoro di bassa qualificazione. E fare impresa, più che vocazione, è pura necessità per chi, come gli stranieri, ha difficoltà a trovare lavoro dipendente. Non dimentichiamoci che per emigrare ci vuole coraggio. Per questo quello che facciamo noi è insegnare l’italiano, la prima vera chiave d’accesso ai diritti di libertà”.

A un certo punto ci voleva qualcuno che difendesse un po’ gli italiani. Ci ha pensato Mohamed Abdalla Tailmun, italiano di origine libica, rappresentante della Rete G2 Seconde Generazioni, in vita “dal 2005 a partire da un gruppo G2 che voleva affrontare i propri problemi e trovare le soluzioni” e principale organizzatrice della campagna L’Italia sono Anch’io a sostegno dello ius soli – vs lo ius sanguinis della Legge 91/92. La consegna in Parlamento di 50mila firme è andata meglio del previsto: “ne abbiamo consegnate 106mila, più della metà, tutte firme di italiani solidali e non attaccati ai propri interessi, decisamente migliori rispetto a come gli stessi italiani si descrivono”.

Forse è vero, quando si dice che i nostri genitori, figli di padri e madri che hanno vissuto gli orrori della guerra, non hanno cercato di fare altro che proteggere i propri figli, offrendogli il massimo del benessere. Questo è stato un gesto d’amore comprensibile, ma forse ci ha resi un po’ privi di motivi per lottare. Soprattutto, arrendevoli davanti alle difficoltà. Allora, forse, la vocazione è nulla senza necessità.

Alice Rinaldi(26 marzo 2012)