Mundialido: l’orgoglio di una maglia con la scritta Iraq

La squadra dell'IraqNata in modo informale in seno alla comunità irachena della capitale, la formazione dell’Iraq comprende funzionari e figli di funzionari dell’ambasciata, seconde generazioni, rifugiati. C’è anche un italiano, Marco Ciaravolo, conosciuto sui campi da gioco della zona Camilluccia, dove la squadra si incontra in media due volte a settimana.

È mancata la preparazione. “Disputiamo 4 o 5 tornei l’anno, ma si tratta di competizioni di calcio a 5 e confrontarsi con squadre allenate nel calcio a 11 è molto difficile” spiega l’allenatore Al Humairy Hameed, commentando le sconfitte subite da CeIS e S.C. Vaticano nelle prime 2 giornate del Mundialido: “Senza contare che diversi elementi molto validi hanno lasciato la squadra per tornare in Iraq, perché il loro incarico di funzionari presso l’ambasciata in Italia era terminato”.
“È una squadra amatoriale composta per il 60% da studenti” aggiunge Mohamed Al Alosy, traduttore del settore culturale dell’ambasciata che segue gli incontri “Questo è periodo di esami e durante la settimana non c’è stato modo di allenarsi adeguatamente. In ogni caso quello che conta è giocare e stare insieme”.

Mundialido: il n.8 dell'IraqTra orgoglio nazionale e voglia di incontro. “La grande soddisfazione è portare su un campo italiano la maglia del nostro paese”. Ahmed Al Wardi, difensore di 28 anni, lavora all’ambasciata e vive in Italia da 5 mesi: “Prima sono stato in Australia, Slovacchia, Austria”. La passione per il calcio lo accompagna da 6 anni e del campionato italiano apprezza la Juventus. Cuore giallorosso invece per il centrocampista Ahmedal Ali e l’attaccante Ahmed Karim, entrambi studenti 17enni giunti in Italia un anno e mezzo fa insieme ai genitori, diplomatici.
“È bello avere la possibilità di confrontarsi con squadre di diverse nazioni” Omar Al Khalel, funzionario 29enne, è il capitano dell’Iraq. Negli 8 mesi trascorsi dall’arrivo qui è diventato un estimatore della pizza e tifoso laziale: “Gioco a calcio da 10 anni, ho fatto parte di una squadra dell’ambasciata anche in Finlandia, dove ho vissuto per 4 anni. Ho girato il mondo e l’Italia è il miglior paese in cui sia mai stato”.

Yazidi Ghazi
Yazidi Ghazi

A bordo campo con Ghazi. Una sedia vicina alla rete, il piede poggiato sul muretto divisorio, una stampella a portata di mano, Yazidi Ghazi è accolto festosamente dai giocatori dell’Iraq e pronto a sostenerli con il suo tifo. “Ci siamo conosciuti giocando, ora sono infortunato”. Nato a Mosul, città al confine con il Kurdistan iracheno, è cresciuto con la passione per il calcio: “Da piccolo mia madre si disperava perché appena potevo scappavo dai libri per correre sui campi di sabbia a calciare scalzo il pallone”. “Il calcio è molto amato in Iraq. Nel 2007 la nostra nazionale ha vinto la Coppa d’Asia, però non siamo ai livelli dell’Europa. Purtroppo l’Iraq è un paese ricco, ma non è democratico”.

Dall’Iraq all’Italia. Nel 2000 Gazhi decide di lasciare il paese: “Non volevo fare la guerra, io amo la pace, quindi sono scappato. Ho viaggiato a piedi dal Kurdistan fin quasi a Istanbul. Con il pensiero fisso: ‘se mi prendono mi riportano indietro e non so Saddam che cosa mi fa’. C’erano tante famiglie e bambini che fuggivano, cercavamo di aiutarci a vicenda, ma molti non ce l’hanno fatta”. Da Istanbul una nave della Marina lo porta in Sicilia, dove ottiene lo status di rifugiato. “Ho lavorato per tre mesi in Calabria nella raccolta delle olive, poi mi sono trasferito a Roma dove un ragazzo iracheno mi ha aiutato a trovare un impiego in una ditta di costruzioni”. Nel 2004 si rivolge all’ambasciata irachena per ottenere i documenti necessari a convertire il permesso di soggiorno per asilo politico in permesso di lavoro: “L’ambasciatore di allora, Mohammed Mahmoud Al-Amili, mi chiese che cosa facevo e mi offrì un lavoro. All’inizio avevo paura, pensavo che mi avrebbero riportato in Iraq, ma lui mi spiegò che le cose erano cambiate perché Saddam non c’era più. Presi del tempo per pensare e dall’ambasciata continuarono a chiamarmi per un anno intero, finché non accettai il posto”. Oggi Ghazi lavora come autista e l’Italia è diventata casa sua: “Nel mio paese non è permesso passeggiare per strada con una donna, qui sono libero di mangiare quello che voglio, uscire con gli amici, andare in discoteca”. E, naturalmente, giocare a calcio.

Sandra Fratticci
(2 giugno 2012)