“Ci sono delle realtà atroci dietro il destino di un immigrato. Non ho pregiudizi nei loro confronti, non vado contro gli stranieri, perché conosco la storia personale, politica e culturale di ognuno. Tempo fa un cineasta è scappato dall’Iran per andare a Londra e ha filmato tutto il percorso insieme agli altri profughi. Le ultime scene raccontano la fine di due immigrati che muoiono di sete dentro un container”. La gente nel quartiere stima molto il musicista Mohssen Kasirossafar, membro della giuria Piuculture del MedFilmFestival 2012, perché ha capito quanto sia colto e sensibile al destino degli altri. Crede si debbano ascoltare le persone, chiedere qual è il senso della loro vita, da dove vengono e dove vogliono arrivare, solo così è possibile avvicinarle veramente, amandole. Mohssen racconta la storia incredibile di un senegalese che vende calzini: “al suo paese ha 3 mogli, 15 figli e ogni anno, prima di tornare in Italia, le mette incinte per paura di non essere tradito”.
“Ho ricostruito un altro sogno”. Potresti essere un buon medico o un architetto, gli diceva il suo papà, ma lui sognava il grande schermo. Amava il cinema d’arte Mohssen, cresciuto con il neorealismo italiano, i film di Fellini, Antonioni, Rossellini doppiati in persiano: “Ho visto 8 ½ di Fellini in italiano, non capivo molto ma trasmetteva tanto”. La cultura iraniana è molto sviluppata perché ha radici antiche e gli intellettuali sono aperti verso le altre culture. Così ha inseguito il desiderio di studiare in Italia alla facoltà di Lettere con indirizzo cinematografico e ha proseguito con un corso di operatore documentarista. Era convinto di potere entrare nel mondo del cinema, ma è finito col fare riprese tv: “ho lavorato su due set, uno di Marco Bellocchio e l’altro di Adriano Celentano, spazzavo, facevo il tuttofare, era deprimente”. Ma anche il percorso storico del cinema italiano l’ha allontanato dal suo sogno, per lui la vera cinematografia significava il neorealismo con il quale era cresciuto. “Il cinema di una volta non esiste più. Per me gli attori sono finiti con Gianmaria Volonté, così abili e grandi non ne nascono più”. Mohssen non ha trovato lavoro nel cinema perché negli anni ’80 -‘90 gli extracomunitari non potevano lavorare in Italia. Facendo il musicista, un giorno, nello studio di mixaggio ha conosciuto Ennio Morricone, che l’ha invitato a fare parte dell’orchestra che interpretava la colonna sonora di un film.
“Più m’immergevo nella musica, più mi allontanavo dal cinema, ma era solo una lontananza fisica, non di cuore”. Dalla prima esperienza con Morricone ha continuato con musica contemporanea, medievale e rinascimentale, fatto concerti e tournées, girando tutta Europa con i suoi due strumenti: zarb e daf. Tutta la sua creazione musicale si ritrova in 51 CD, ha lavorato per il teatro con grandi registi ed è stato ospite programmi radiotelevisivi. La sua musica mescola suoni iraniani e occidentali e tramanda la tradizione insegnando zarb e daf : “Quando i miei allievi mi superano per me è un onore”.
“Avevo una voglia pazza di avere degli strumenti persiani”. Dopo la rivoluzione islamica, per un periodo, non si potevano esportare strumenti dall’Iran, così Mohssen ha deciso di diventare liutaio, senza improvvisazione, basandosi sulla ricerca. Per fare delle arpe medievali e celtiche è andato all’Università La Sapienza, al Dipartimento di cultura irlandese: “faccio delle casse piccole, ma molto sonore”.
“Preferisco rimetterci, non guadagnare, ma fare arte”. L’Italia gli è sempre piaciuta perché gli ha permesso di fare cultura. “Senza sentirmi un artista, penso che chi lavora con l’arte, chi la produce, comunque lascia un’impronta importante, che rimane nel tempo. Tu sei quello che cambi il modo di vedere e di fare le cose, dai una mano alla società italiana ad evolversi”. Mohssen ha messo on-line solo video che possano servire alla ricerca e allo studio della musica.
“O lavoro con i grandi o niente”. La passione per le immagini di Mohssen si manifesta non solo nel cinema, ma anche nella fotografia: per realizzare la sua mostra ha impiegato 11 anni, 800 foto in digitale più su pellicola che rappresentano le opere d’arte riflesse nel Tevere, nelle pozzanghere, paesaggi di Roma capovolti nell’acqua, delle quali ne ha scelto soltanto 40. Anni di ricerche, di ‘attesa della pioggia’, buttato per terra per immortalare sull’asfalto bagnato la parte nascosta, l’immagine che vive per pochi istanti. Solo per il Colosseo ha scattato più di 50 foto, “cerco di vedere la bellezza”. Gli chiedevano di esporre nelle gallerie, invece Mohssen voleva mostrare il suo lavoro solo nei musei, ha raggiunto l’obiettivo con la mostra al Museo di Roma in Trastevere. Sta preparando la prossima mostra fotografica con dettagli dei murales sparsi nella città, scoprendo il bello là dove gli altri vedono il contrario.
Nelle foto c’è della poesia e le sue poesie sono piene d’immagini. Premiato al festival di poesia SLAM Poetry nel 2009. Compone testi molto personali che parlano dei rapporti umani, dello stato d’animo. All’inizio scriveva in persiano e all’improvviso ha iniziato ad esprimersi in italiano. E’ un percorso incoscio, la metamorfosi di uno straniero. Si arriva qui parlando una lingua, con le radici della propria cultura e mentalità e ci si ritrova un giorno a parlare e pensare nella lingua d’adozione, sentendosi più italiani che mai. Una parte di te muore, si annulla, per fare posto a una metà nuova, magari più evoluta e sicuramente più mediterranea.
“Penso che la solitudine è la libertà”. Solitario e malinconico di carattere, Mohssen preferisce leggere, scrivere, costruire degli strumenti, fotografare e non perdere tempo con delle persone che non lo arricchiscono spiritualmente. Passa molto tempo nella sua bottega, con le sue 2 gatte, ma cura e dà del cibo anche alla colonia di gatti del quartiere. “Non si riesce a vivere d’arte, ma ho superato da tempo questa pretesa”. Ha rinunciato al telefono, alla macchina, alla tv per ridurre le spese. Oltre a venerare l’arte e il cinema di Fellini, è anche un amante delle bestie feline: “la mia gatta ha la faccia umana, sembra una ragazza. I gatti per me sono tutte femmine, anche se sono maschi”. Li chiama tutti con nomi di donne e gli dedica poesie.
Raisa Ambros(25 ottobre 2012)