“Fino alle scuole medie per me il Sudan era il paradiso” così esordisce Omer Hassan, 32 anni, sudanese di Elfashir, nel Darfur. È arrivato in Italia nel 2004, dopo cinque interminabili giorni che hanno lasciato un segno indelebile “siamo partiti dalla Libia venerdì, perché è il giorno di preghiera per i musulmani e ci sono meno controlli. Ancora oggi non saprei dire come io sia riuscito a superare il viaggio, a resistere a tutti quegli stenti. Quando il gommone si è ribaltato ci siamo attaccati alla corda laterale, ma non tutti ci siamo riusciti. C’era chi chiedeva aiuto, ma in quei momenti come puoi aiutare se non sai neanche se ce la farai tu.”
I motivi che lo hanno spinto a partire sono legati al conflitto che flagella il Darfur dal 2003 “in Sudan c’è la guerra da prima che nascessi. A me non piace uccidere le persone, per questo sono andato via”. La partenza è dolorosa, Omer lascia 14 fratelli e dei genitori molto amati, tuttavia, le condizione socio-politico ed economiche, non consentivano molto margine di scelta.
Scuola e sanità sono solo due delle voci carenti delle quali Omer racconta “la scuola è tutta a pagamento diretto, anche per questo io non sono riuscito a fare le scuole superiori, purtroppo” mentre gli ospedali e le strutture correlate sono manchevoli soprattutto per quello che concerne i servizi forniti alle città prevalentemente abitate dai neri sudanesi. Le risorse abbondano invece nelle città a maggioranza araba.
Il Sudan è, per estensione, il paese più grande dell’Africa nonché la sede di un’anomalia: pur essendo i neri africani la maggioranza di tutta la popolazione sono di fatto gli arabi a detenere il potere da quando il paese ha dichiarato l’indipendenza nel 1956 “le elezioni indette hanno sempre confermato gli arabi, il nostro governatore attuale è in carica dal 1989, certo vengono fatte delle elezioni, ma non è sicuramente possibile che vengano vinte sempre dagli stessi con una vittoria che rasenta il 99.9%. Queste per me non sono elezioni.”
Il viaggio intrapreso verso l’Europa voleva eludere tutto questo. Inizialmente Omer ha cercato di raggiungere l’Inghilterra poiché, “siccome il Sudan è stata un’ex colonia inglese pensavo di poter trovare lavoro più facilmente”, l’idea era buona ma si è scontrata con il Regolamento di Dublino che attribuisce allo Stato membro dell’UE dove è arrivato il richiedente asilo, le competenze relative alla sua pratica, Ragion per cui ha ottenuto in Italia il permesso di soggiorno per motivi umanitari, oggi detti sussidiari.
Lavoro. Dopo aver svolto numerosi professioni, come il muratore o il fornaio, Omer ha trovato lavoro in un centro che si occupa in particolare di minori stranieri. Mentre d’estate accompagna anziani e disabili in vacanza cercando di realizzare un suo antico sogno “da piccolo il mio desiderio più grande era avere soldi per aiutare gli altri, veramente! Purtroppo non sono riuscito a crearmi quest’opportunità e così ho scelto di fare questo lavoro estivo”.
Speranze. Il suo obiettivo futuro sarebbe quello di ritornare in Sudan, “a casa, dai miei fratelli e dai miei nipoti che crescono sempre di più in numero. Però, se così non potrà essere siccome voglio innanzitutto la pace, andrò dovunque ce ne sia”.
Amore ed educazione. La sua internazionalità riguarda anche gli affetti, afferma infatti che “non credo sia necessario che io abbia una moglie musulmana o nera, penso che le cose importanti e fondanti siano altre, non certo il colore della pelle o il modo nel quale si prega”. E, parlando di religione correlata all’educazione, quando in futuro bisognerà scegliere se far seguire o meno ai suoi futuri figli l’ora di religione sostiene evasivamente “io avevo l’ora di religione islamica, ed era una normale lezione durante la giornata scolastica. Un domani, se mia moglie sarà cristiana certo non potrò decidere da solo e a prescindere dalla sua opinione, vedrò poi, adesso come potrei, non la conosco neanche!”
Il pregiudizio inquina da sempre la sua esistenza. In tutto il Sudan esistono numerose etnie ed Omer appartiene a quella berti. Tuttavia, in quanto nero del Sudan, si è sempre ritrovato in una situazione da limbo dantesco “gli arabi ci giudicano male perché per loro siamo africani e questi ultimi fanno lo stesso perché ci ritengono arabi, siccome è la nostra lingua madre. E noi non sappiamo come collocarci. Siamo entrambi eppure nessuno dei due ci accetta”. Il pregiudizio è diventato prettamente razziale una volta sbarcato in Europa. In Italia ha frequentato un corso di formazione per diventare pizzaiolo, i problemi sono iniziati quando, dopo un primo impiego, ha provato a cercare un altro sempre come aiuto pizzaiolo “telefonavo e mi dicevano che potevo andare a lavorare da loro anche il giorno stesso, poi, quando mi vedevano, mi accorgevo dei loro occhi pieni di stupore di fronte a me, nero, ed ecco che il posto non era più disponibile”. Anche per questo alla fine ha deciso di cercare altrove. Tuttavia, il lavoro che continua ad appassionarlo maggiormente rimane quello estivo “i disabili e gli anziani non mostrano pregiudizi, io sono una persona allegra, e mi piace ballare in compagnia, così i disabili mi hanno accolto”. E certamente la sua risata, che spesso accompagna le risposte che dà e riempie i silenzi, è più che contagiosa.
Piera Francesca Mastantuono
(18 ottobre 2012)