“All’inizio la parola e la musica erano collegate, finché un uomo disse una bugia. E la musica non può mentire”. Jordi Savall, direttore d’orchestra, violoncellista e filologo musicale spagnolo incontra al Conservatorio Santa Cecilia il pubblico romano a poche ore dal concerto “Spirito d’Armenia” della sera del 14 gennaio presso l’Aula Magna del Palazzo del Rettorato dell’Università Sapienza, esibizione tributo alla cultura di un paese dalla tradizione antichissima e travagliata, segnata in particolare dal genocidio di inizio Novecento subito per mano turca.
“Le loro musiche popolari parlano di momenti, di gente che ha sofferto ma che ha ritrovato la fiducia, la speranza, in un concentrato di emozioni. Sono l’arte della memoria per eccellenza, pacifiche, un grande paradosso per chi conosce la storia armena”. Ma la passione di Savall deriva anche dall’intreccio con motivi personali piuttosto seri: nel novembre 2011 la moglie, ormai nel suo ultimo periodo di vita, ascoltava molto il duduk, una sorta di flauto, strumento che a Savall ha “salvato la vita, portando la pace di cui avevo bisogno”. A breve sarebbe arrivata la realizzazione di questo progetto, iniziato di certo non come una cosa desiderata.
“L’Armenia è uno di quei paesi con una forte identità musicale, come l’Irlanda, il sud della Spagna e Napoli per l’Italia. Loro continuano la tradizione mentre gli altri devono impararla”. Anche se può capitare di melodie condivise da diverse popolazioni, specialmente nell’Europa orientale fino ai confini con l’Asia, credute del proprio bagaglio culturale perché usate a seconda dei posti come canti religiosi, di guerra, d’amore. È capitato che unendo artisti bulgari, greci, turchi, armeni ed israeliani “si creassero dispute sulle paternità”, svanite quando poi si iniziava a suonare “secondo un linguaggio musicale esperanto che toglie ogni relazione con i singoli idiomi”.
Il linguaggio della musica Savall ricorda quindi un aneddoto legato a Robert Schumann, al quale al termine di un concerto in un’abitazione privata fu chiesto dalla padrona di casa cosa volesse dire con quella sonata. “Lui si è seduto di nuovo e ha ricominciato da capo. Quello che è essenziale si può dire solo con la musica, il resto è complementare, per quanto possa essere più o meno interessante”. Il più primordiale fra i codici, non a caso è da subito capito dai neonati, grazie alla cadenza del suono “capiscono l’emozione, l’affetto”, che non potrebbe essere ancora compreso verbalmente.
Gabriele Santoro(15 gennaio 2014)
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