Nel cuore del quartiere africano, concentrato di studenti e famiglie benestanti, si annida una rete di commercianti che vengono da tutto il mondo: dal Bangladesh all’Iran, dalla Cina al Pakistan. Poco distanti dalla fermata S.Agnese/Annibaliano artigiani persiani espongono la loro merce e lavorano in vetrina, tra la curiosità di qualche passante attento e l’indifferenza di chi corre verso la metro. Non possono fermarsi per le interviste, hanno un tappeto da consegnare a breve e minuziosi nel concentrarsi sui colori e sulle forme. Ci sarà occasione per le chiacchiere un altro giorno, assicurano con cortesia.
Poco oltre, in un negozio zeppo di oggetti, c’è sempre lo stesso ragazzo cinese: non ha tempo di parlare, né oggi né domani. E nemmeno nelle pause: “Non ho tempo libero, lavoro dal lunedì alla domenica”, dice in modo definitivo. Si notano da lontano, invece, tutti i colori della stagione esposti nel negozio di frutta lungo la strada: ad accogliere i clienti Shobuz e il suo collega, Razbee. Hanno la chiacchiera facile di chi è annoiato dalla monotonia. Una cliente li chiama il gatto e la volpe, hanno circa 25 anni e condividono serate e lavoro, che ogni giorno coincidono. Entrambi vengono dal Bangladesh e, secondo l’Osservatorio Romano delle Migrazioni, sono due di quei 23.040 presenti a Roma.
A fine serata, mentre sistema la frutta nelle cassette per il giorno dopo, Shobuz parla di rimpianti, di previsioni future e dei pensieri che gli affollano la testa. Non spiega perché abbia scelto di venire in Italia, “ci sarebbero troppe cose da dire”, taglia corto. “Prima di partire non sapevo come funzionasse la vita, cosa potesse significare andare all’estero, avevo vissuto sempre con i miei genitori. Quando è morto mio padre ho capito quello che avevo perso e che dovevo cominciare a prendere la mia vita in mano. Fino a quel momento non avevo capito nulla. Sono arrivato dal Bangladesh con i miei zii, ma poi pian piano ho dovuto fare da solo e ho avuto la conferma che la vita era tutta un’altra cosa. Mi sono anche accorto di tutti gli errori che ho fatto: non aver preso la patente quando avevo il tempo, o aver lasciato un buon lavoro senza nemmeno pensare che quella possibilità non sarebbe più tornata”.
“Ma non si può parlare della propria vita in dieci minuti. Anche se io decido di raccontare due, tre cose, nemmeno quelle si possono capire davvero se non si conosce tutto il resto”. Shobuz, però, in qualche minuto riesce a raccontare molto bene il suo rapporto con l’Italia: “Qui tutto è semplice se hai i soldi, per me come per te, altrimenti non puoi fare nulla. Ma fare i soldi non è facile, per nessuno”. E conclude: “Non mi piace rimanere in Italia, voglio tornare al mio paese”.
Nonostante ciò, “apprezzo molto la gentilezza degli italiani. In Bangladesh le persone non sono attente a dire: grazie, prego, buonasera… Gli italiani sono gentili, a parole almeno, poi non so dentro il cuore cos’hanno”. E aggiunge: “A me è successo di essere discriminato, ma sarà successo anche a te, succede nella vita… Ti dico una cosa: in tutti i paesi del mondo, come le cinque dita della mano sono tutte diverse tra di loro, anche le persone lo sono. Nessuno è uguale, io e lui siamo dello stesso paese, ma non siamo uguali”.
E infatti mentre Shobuz parla, Razbee non sembra interessato a partecipare alla conversazione, e solo a un certo punto interviene per riassumere ciò che sta pensando in poche parole:”Il dottore mi ha detto di sorridere, sono pensieroso perché guardo sempre al passato, a quello che ho perso venendo qui. Penso sempre a quando ero studente, a quante amiche e a quanti amici avevo. Io ho perso tutta la mia vita quando sono partito”.
Sono le 23.30, la giornata per Shobuz e Razbee non è ancora finita ma ricomincia presto: alle 8.00 in punto. Sempre uguale.
Rosy D’Elia
(8 aprile 2015)
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