Baobab: una famiglia senza casa ma non senza un cuore

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L’insegna del centro Baobab, in via Cupa. La struttura è stata chiusa il 6 dicembre, ma anche a porte chiuse, e senza una casa, la famiglia Baobab continua a tenersi unita.
Una famiglia: è questa la parola che definisce il Baobab. Parola usata sia dai volontari che dai migranti. Anche se la famiglia Baobab non ha più una casa, i suoi membri non hanno nessuna intenzione di disgregarsi, perché le sue radici affondano nei cuori delle persone e non nei muri. Non parlano la stessa lingua, hanno diverse provenienze e credi religiosi ma si battono per uno scopo comune.Il centro è nato da un vuoto istituzionale colmato dai cittadini, “una risposta dal basso”, di fronte a una situazione di emergenza. Molti dei volontari sono arrivati qui per caso, da semplici donatori hanno iniziato a dare il proprio supporto regolarmente dando vita a un “piccolo miracolo”, che ha dato accoglienza a circa 35 mila ospiti da giugno e che si è distinto per essere stato un “modello di accoglienza”.Dopo il blitz e la chiusura del centro, in seguito ad una sentenza che sanciva la restituzione dell’immobile al proprietario, nuovi migranti continuano ad arrivare ma è difficile sistemarli. Alcuni dei vecchi ospiti transitanti sono stati ricollocati in altri centri di accoglienza per di più notturni, ma di giorno vengono qui. Gli altri e i nuovi che arrivano invece, molte volte per paura di essere identificati, diffidano dei centri di accoglienza “ufficiali” e rimangono per strada. Altre volte invece, nelle stesse strutture mancano posti letto e non viene assicurato nemmeno un pasto durante il giorno. Una situazione ormai insostenibile: le soluzioni improvvisate e provvisorie non sono più sufficienti. Serve una soluzione stabile e a lungo termine.
Il camper fornito da Medu per il presidio permanente dei volontari del Baobab e dei Medici per i Diritti umani , che continuano da qui la loro attività di prima assistenza ai migranti e di sportello informativo.
Il camper fornito da Medu per il presidio permanente dei volontari del Baobab e dei Medici per i Diritti umani , che continuano da qui la loro attività di prima assistenza ai migranti e di sportello informativo.
Fuori dal cancello c’è il camper fornito da MEDU, Medici per i Diritti Umani, per l’assistenza medica, legale e gli spostamenti logistici. Un nuovo punto di riferimento, intorno al quale si cerca di ricreare quella quotidianità perduta. Si vedono i ragazzi giocare a pallone, mangiare un piatto caldo, scambiare una chicchera con i volontari. Qui si sentono a casa anche se la casa di fatto non c’è più, ma è il contatto umano che fa la differenza.Anche le donazioni da parte dei cittadini continuano, ma non c’è un magazzino. I volontari, con pochi mezzi a disposizione, mantengono le attività di routine fuori dai cancelli sbarrati: distribuzione dei pasti e dei vestiti, assistenza sanitaria, informazioni ai migranti sui luoghi dove passare la notte.Dopo l’appuntamento con il Commissario Tronca, il 15 dicembre al Campidoglio, si attendono ancora risposte chiare e a lungo termine in merito alla richiesta di creare un centro affine al Baobab, risposte che ancora non arrivano. “Non vogliamo metterci al posto delle istituzioni”, spiega la volontaria Roberta, 27 anni, studentessa di Cooperazione allo sviluppo, “ma proseguire nel lavoro già avviato dai volontari di creare una rete di supporto che comprenda anche competenze specifiche di medici, legali, mediatori culturali e associazioni umanitarie con il surplus dell’elemento umano, d’incontro e confronto, caratteristico del Baobab”.“A prescindere dall’esito dell’incontro con il commissario, l’unità mobile del Medu, rimarrà a disposizione dei volontari del Baobab e continuerà a prestare assistenza socio-sanitaria ai migranti in transito”, spiega il coordinatore generale di Medu, Alberto Barbieri. Non nasconde tuttavia l’amarezza dovuta alle difficoltà l che i volontari si trovano ad affrontare: “Cerchiamo di offrire la prima assistenza sanitaria ai migranti e di indirizzarli in altre strutture a seconda dei casi, sempre nel rispetto dell’anonimato. Il nostro è un progetto ponte che si affianca ad altre associazioni. Purtroppo, molti migranti provengono da viaggi estenuanti ed alcuni portano sul corpo segni di maltrattamenti fisici e addirittura torture, per non parlare di traumi psicologici. Inoltre, vivendo tuttora in una situazione di degrado e d’igiene precaria le cure sono meno efficaci e la salute passa in secondo piano. Per questo c’è bisogno di un piano di accoglienza a tutto tondo. Recentemente abbiamo avviato il progetto Medu Psychè, un centro per la cura, la testimonianza e la ricerca contro la tortura e i trattamenti inumani e degradanti”.Tanti vorrebbero che i migranti fossero invisibili”, spiega Lorenza, volontaria e mamma, che un giorno portando le donazioni al centro ha capito che non poteva più far finta di non vedere, perché “al posto di quella persona ci potrei essere anche io, o mio figlio”.20151215_140859“Avere paura di questi tempi è comprensibile, l’ignoto spaventa ma fare il volontariato aiuta a conoscere da vicino diverse realtà e avere meno paura della diversità”, ribatte Cinzia.Michelina, una signora eritrea, in Italia da 40 anni, si occupa della preparazione e distribuzione dei pasti: “Bisogna aiutare gli ultimi”, dice, “so che significa scappare dalla guerra e non posso non darmi da fare”. Qui ognuno ha un ruolo, il più giovane dei volontari, Ludovico, ha 14 anni e spesso viene a dare una mano. È già sera e in aria si innalza l’odore di pasta al forno al ragù preparata dalle volontarie per “gli ultimi”, ma “quando si aiuta il prossimo bisogna farlo bene, o non farlo per niente”, dice Michelina sorridendo, nonostante la febbre. “Ho preso come esempio delle signore anziane che venivano qui per dare una mano, e mi sono detta se loro possono nonostante l’età allora io devo”.Ahmed, un migrante marocchino di 33 anni, laureato in lingue germaniche, definisce il Baobab come un “dopo scuola”: “Qui ho conosciuto tante persone buone, che porterò per sempre nel cuore, ma questa non è vita, è sopravvivenza. Spero un giorno di poter iniziare un nuovo capitolo, farmi una famiglia, avere un lavoro dignitoso e una piccola casa”. Presto si rimetterà in viaggio verso la Germania.

Un ragazzo marocchino, prende una chitarra e intona una canzone in arabo dal ritmo allegro, ma dal testo tradotto si percepisce la malinconia: “Non ho un passaporto ne un posto dove andare, giro senza meta per le spiagge e le strade. Ho dimenticato tutti tranne mia madre”. Un ritornello che racconta l’esperienza di molti.

16/12/2015

Ania Tarasiewicz

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