Vivere sul confine non significa conoscerlo

confine slovenia italia

Trieste è una città che può offrire moltissimo in quanto a scambi culturali, ma al tempo stesso può chiudersi a riccio e puntare gli aculei.

È una contraddizione che succede di frequente nelle zone di frontiera; le ragioni sono molte e spesso intricate. Ci si incuriosisce e ci si allontana. Ci si incuriosisce sempre di quello che succede al di là del confine, ma spesso si continua a viverci accanto senza imparare nulla: vicinanza non significa conoscenza, anzi. A volte si crea quella presunzione che, se non stai attento, ti porta molte miglia lontano da dove credi di essere arrivato.

Ma si può anche decidere che è il caso di capirci qualcosa, e di partire. Basta allacciarsi gli scarponi e fare una camminata lungo il confine sloveno per imbattersi in infinite casermette abbandonate. Sono i luoghi che raccontano la difficile convivenza a cavallo tra Ovest e albori dell’Est: le notti passate con gli occhi incollati sui binocoli, a spiare i graniciari jugoslavi e, da parte loro, i militari italiani; sono le giornate di controlli alla dogana, di contrabbandieri e clandestini nascosti sui sentieri del Carso e sì, negli anni più caldi, anche di qualche fucilata.

Difficile credere che esistano frontiere senza tensioni; certamente non esistono frontiere senza storie.
Gorizia, ad esempio, è una città talmente vicina al confine che in Slovenia ci vai a piedi in 5 minuti. Presso Casa Rossa, storico valico protagonista nella guerra del ’91 di uno scontro armato tra federali jugoslavi e miliziani sloveni, vive D., un anziano contadino dalle mani grosse e lo sguardo buono.
Non è il tipo che si fa problemi a spalancare la porta di casa e a invitarti dentro una mezzoretta, il tempo di bere una grappa e scambiare quattro chiacchiere.
La grappa sarà più di una, la mezzoretta diventeranno due ore.

Casa sua sorge esattamente sulla linea di confine. Tracciato in fretta e furia dagli Alleati alla fine della Seconda Guerra Mondiale, ha tagliato in due paesi, case, famiglie e persino cimiteri. E così, di punto in bianco, lui si era ritrovato ad avere casa in Italia ma parenti e vigneti in Jugoslavia. E recarsi ogni giorno dall’altra parte non era un problema da poco.

“I primi tempi sparavano a vista, e seppellivano i morti sul posto”. Mentre nel resto del Paese la guerra era finita e si discuteva di Repubblica e Costituzione, sul confine orientale si continuava a sparare, quasi tutte le notti. Spesso capitava che D. uscisse di casa la mattina e trovasse, nella sua proprietà, i cumuli di terra che ricoprivano i corpi di chi aveva provato a scappare. Una notte, alcuni colpi gli sono perfino entrati in camera e gli hanno frantumato lo specchio.

“A controllare il confine, da queste parti, c’erano solo jugoslavi. Gli italiani poco, perché avevano paura a pattugliare troppo vicino al confine. C’era il rischio di…” non finisce la frase, ma il senso è chiaro.
A pattugliare la frontiera venivano messi jugoslavi presi dall’interno del paese: serbi, croati, montenegrini, quasi mai gente di quelle parti. Perché, se sui confini ci si spara, si può anche correre il rischio di fraternizzare. E così è successo: nei primi anni Cinquanta, D. si reca come ogni giorno a lavorare i campi oltreconfine. Ha un lasciapassare di 10 km, e a ogni controllo deve esibire il timbro, sia in entrata che in uscita. Quasi sempre il camioncino viene fermato e perquisito, per evitare che si nascondano clandestini o generi di conforto, “neanche ago e filo, i gaveva”.

D. conosce quindi due nuovi soldati preposti al controllo: uno è di Lubiana, l’altro di Capodistria. A differenza di altri, sanno leggere – alcuni guardavano solo il timbro perché erano analfabeti – e sanno pure conversare. D. parla un po’ di sloveno, mentre con il soldato di Capodistria può parlare in italiano. Fraternizzano, insomma, e ci vuole poco prima che i due chiedano a D. di aiutarli a disertare e a trovare rifugio in Italia. E così avviene. “Mi hanno scritto da Lipari, dalla Germania e alla fine pure dall’Australia, dove si erano trasferiti” .
È quanto basta. Il taccuino si chiude, la grappa finisce. Oltre la nube di fumo di sigaretta, la pioggia d’agosto ha cominciato a scrosciare.

Vivere sul confine non significa conoscerlo: come ogni territorio va scavato, affrontato, sfidato continuamente. Non sarebbe un delitto voltarsi a guardare dall’altra parte?

Fabio Marson

(17 febbraio 2016)

Nota: Questa storia ha ispirato un breve radiodramma scritto dall’autore dell’articolo, intitolato “Grappoli” e andato in onda su Radio 3 un paio d’anni fa.

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