I Tuareg spopolano alla Winckelmann: le reazioni dei ragazzi delle medie al documentario di Caramaschi

proiezione del film di Caramaschi
proiezione del film di Caramaschi

Sono le dieci e all’Istituto comprensivo di Piazza Winckelmann irrompono i Tuareg. Comincia la proiezione del film-documentario di Fabio Caramaschi “Solo andata: una famiglia Tuareg in viaggio verso il nord-est”, primo incontro del ciclo di tre, organizzato da Piuculture nelle scuole del Municipio II. Assistono alla visione cinque classi e alcuni studenti stranieri che frequentano il corso per rafforzare l’italiano.

Non c’è l’abituale chiasso che ci si aspetta in un istituto secondario di primo grado in occasione di attività inconsuete, gli sguardi sono curiosi, l’attenzione è viva.

“Non è un film normale – premette il regista prima di dare il via al documentario – è un ragazzino delle medie ad usare la telecamera”, ed è proprio questa scelta stilistica che ha reso il film così accattivante per il suo giovane pubblico.

Il documentario inizia con un’intervista a Sidi, da poco arrivato in Italia, che su un’altalena racconta del terzo fratello, rimasto in Niger perché non aveva la “password”. Così nella sua testa e nel suo italiano ancora precario si traduce la mancanza della documentazione necessaria per il ricongiungimento.

Da grande vorrebbe fare il giornalista, che “è come un fotografo che va in tanti Paesi e cerca delle informazioni” e infatti, da intervistato dei primi fotogrammi, diventa intervistatore: “quando sto dietro alla telecamera tutti mi rispettano”. Così attraverso il suo punto di vista e le sue domande si struttura il documentario, con quella sincerità che colpisce i ragazzi: Sidi potrebbe essere ognuno di loro, è chiaro da come gli occhi restano incollati allo schermo e dai silenzi che nascondono pensieri ed emozioni.

Ad essere intervistati non sono solo gli abitanti di Pordenone, la città in cui Sidi vive, ma anche la comunità Tuareg, che racconta tutte le difficoltà della vita clandestina e dell’integrazione.

Si alternano immagini del fratellino rimasto con i nonni e della comunità Tuareg in Niger, nella quotidianità che Caramaschi, che l’ha vissuta, definisce “antica”. Questa scelta dà un’idea visiva di quello che può aver significato per la famiglia ricostruirsi una vita in questa industriale e nevosa città, dopo l’esistenza nomade nel deserto, trasformarsi da pastori di capre a operai di fabbrica.

Fotogramma del film
Fotogramma del film

Altro elemento accattivante per i ragazzi è stato l’arrivo del piccolo Alkassoum in Italia, che rimane colpito dal mondo occidentale che aveva risucchiato la sua famiglia eppure non riuscirà mai, come il fratello, a sentirsene parte.

Il documentario termina tra una pioggia di applausi: i docenti sono entusiasti e i ragazzi sono un fiume in piena, che inizia a bombardare il regista di domande.

“Qual è stata la parte più difficile?”

“Quella delle interviste al padre – risponde Caramaschi – come quando Sidi chiede al padre: tu che dici che Tuareg significa uomo libero, e parli di libertà, sei libero?”

“Perché?” mormorano molti.

“E’ difficile per adolescenti della società contemporanea capire il rispetto che in certe culture si porta ancora alla figura genitoriale maschile. Al padre Tuareg non si fanno domande, lui è la legge, con lui si cammina e si fa la prima carovana dell’età adulta. Per questa ragione padre e figlio si sono sentiti molto a disagio, perché stavano rompendo una regola della loro tradizione”.

Alcuni ragazzi sono stati colpiti dalla scelta di Alkassoum di ritornare in Niger. Non è altro che un bambino di poco più piccolo di loro, ma con una grande maturità: di fronte al fratello che lo intervista, confessa di aver pianto quando tutta la famiglia è partita per l’Italia lasciandolo da solo, “ero piccolo ma ora lì conosco tutto, è la mia terra, se fossi venuto prima forse avrei compreso meglio questo Paese”.

“Come hai trovato la storia?” – chiede un ragazzo di prima media in terza fila.

“La storia sceglie l’autore non il contrario”- risponde Caramaschi e racconta di come nel ’98 sia andato in Niger con un’associazione per costruire una scuola. Sottolinea un tratto tipico dell’emigrazione dei Tuareg: “la gente ha rischiato e perso la vita prima ancora che per la salute per la scuola, è importante che lo capiate”.

Mentre era lì gli avevano indicato una donna che aveva il marito in Italia ma non lo sentiva da un anno per problemi tecnici. Così avevano deciso allora di chiamarlo con un satellitare.

“ E’ stato un momento molto emozionante, sullo sfondo sentivo il rumore dei clacson. E’ stato così che ho deciso che quella dei Tuareg sarebbe stata la mia storia”. Poi Caramaschi conosce Sidi e la sua famiglia e se ne innamora. Così per dieci anni ha vissuto con loro, insegnando anche un po’ di italiano a Sidi che ha visto crescere. In seguito è tornato in Niger per conoscere l’altro fratello.IMG_1872

Jacopo della I E è molto coinvolto, cerca di capire le reazioni dei diversi membri della famiglia e continua: “Perché Sidi si è inserito e l’altro no?”.

Un ragazzo cinese di seconda generazione prova a rispondere: “Sidi ha vissuto la vita là, anche io se dovessi spostarmi mi sentirei un po’ perso, più sei grande più è difficile”. Altre mani si alzano: “Come si sentiva Sidi quando faceva le interviste?”. “Quanti anni hanno ora i ragazzi?” . “Torneranno tutti in Niger un giorno?”

Entusiaste le reazioni al film, anche se alcuni erano molto toccati dal fatto che il fratellino piccolo fosse stato lasciato in Niger.

Uno di loro ha concluso: “Fortunato, ascoltando questa storia mi sono sentito molto fortunato”.

Elena Fratini

(14 aprile 2016)

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