Pagine di diario on the road: l’integrazione è un vaggio sul raccordo

Integrazione viaggio lavoro

Cecilia Stajano è responsabile del settore Innovazione nella scuola della Fondazione Mondo Digitale. All’occorrenza mette a disposizione le sue doti organizzative anche per gestire le squadre di lavoro che collaborano con lo staff in occasione dei grandi eventi. Questa volta la squadra è composta da Amir, Sule e Moustapha, vengono dal Mali e dal Gambia e a Roma sono ospiti di centri di accoglienza in periferia. Il grande raccordo anulare diventa punto di incontro e di scoperta reciproca. In questa pagina di diario on the road Cecilia Stajano racconta come basti condividere l’abitacolo di un furgone e qualche chilometro nell’ora di punta per far crollare qualsiasi barriera. 

 

Al primo viaggio i dialoghi sono semplici. “Buongiorno”, “grazie di essere arrivati puntuali”, “non sappiamo a che ora finiamo”, “ nel cruscotto c’è un poco di pizza bianca, per chi la vuole”. Le risposte sempre uguali: “Sì. Ok, grazie”.

Dopo aver sistemato il primo carico di materiale la squadra di lavoro si è già formata. I ragazzi non si conoscono tra di loro, all’inizio a farla da padrona c’è tanta riservatezza, poi la situazione prende il sopravvento: dinamismo, coordinazione e comunicazione sono necessarie. I componenti della squadra si sollecitano a vicenda con un linguaggio che suona d’africa e d’arabia, cerco di afferrarne il senso, ma l’unico indizio per me è il tono.

Capisco che siamo pronti a rimetterci in viaggio da un “finito!” pronunciato con soddisfazione da colui che si è auto-eletto caposquadra. “Bravi, ragazzi! Se continuiamo così, per le quattro abbiamo finito”, dico.

Il clima iniziale si è sciolto, insieme ai muscoli. Saliamo sulla rampa per immetterci nel raccordo e vediamo davanti a noi un mare di lamiera, ferma: è l’ora di punta. Cercare la radio sul cruscotto è un gesto naturale per avere informazioni sul traffico e trovare il modo di sopportare l’imbarazzo tra di noi. Aihmé, il modello base del nostro mezzo di trasporto non è così accessoriato, e questa è la nostra salvezza. I tre ragazzi fanno a gara per mettere la musica dal proprio cellulare, devono aver ascoltato quelle canzoni a palla infinite volte per stordire una mente che non sempre ha cibo, affetto e prospettive a disposizione.

Passano in rassegna il pop italiano. Capisco che per loro integrarsi è ascoltare la stessa musica dei loro coetanei italiani, trovare ogni modo per imparare l’italiano, anche attraverso le parole della Pausini o di Ramazzotti; sentirsi a casa è anche ascoltare la musica europea che arriva nelle loro terre lontane. Provo a chiedere se conoscono l’ultima canzone di… e sorprendentemente conoscono anche quella. Mi stupisco per la prima volta, incuriosita voglio scoprire di più. Dalla musica passiamo alle abitudini che stanno acquisendo, ai cibi che preferiscono  in questa nuova cultura che li accoglie, ai gesti di questa lingua, alle parole, alla difficoltà di capire, di esprimersi.

Mi sento contornata da “antropologi in erba”, che per inserirsi in una nuova società studiano ogni singolo gesto, atteggiamento, mossa delle persone che incontrano. Grazie alla loro prospettiva, mettono in luce aspetti a cui io stessa non ho mai fatto caso, a quanto possano risultare ridicoli certi gesti a cui diamo un preciso significato.

Non mi pesa più cambiare dalla prima alla seconda, e dalla seconda alla prima marcia per circa 10 chilometri. Non mi pesa più stare stretti nell’abitacolo. Anzi, una volta arrivati a “terra” per ricaricare il furgone, è un dispiacere interrompere la conversazione, che riprende subito ricominciando la marcia in senso inverso.

I viaggi sul raccordo mi regalano la consapevolezza di quanto questi ragazzi si impegnino a capire, rispettare, la nostra cultura per provare a farne parte, essere accettati e sperare in qualche momento di serenità sincopata, una tregua dai loro dolori, fisici e morali. Mi regalano la visione di quanto a volte, più di noi, ne sappiano di società, difficoltà, opportunità. Mi regalano l’idea che se solo riuscissimo a farci raccontare i loro mondi, scopriremmo come sui valori fondamentali siamo tutti davvero uguali e quel che cambia è la forma.

Porto con me la tenerezza di sapere che i ragazzi hanno fatto pace con l’idea di vedere una donna al voltante del furgone, portarli a lavorare, nutrirli con la pizza a taglio, impartire loro ordini. Ho avuto la conferma che l’unica cosa che realmente conta è porsi sempre con tutti con onestà, garbo, empatia per ricevere in cambio molto più di quel che meriti. E così è stato un onore scoprire che sul cellulare di Amir il mio nome è registrato come “Cicilia my boss”.

Cecilia Stajano

(9 novembre 2016)

Leggi anche