Accelerazione delle procedure per il riconoscimento del diritto d’asilo, soppressione dell’appello contro il diniego dello status di rifugiato, assunzione di nuovo personale in arrivo nelle Commissioni territoriali d’esame, creazione in ogni Regione di Centri per il rimpatrio (Cpr). È l’impianto su cui poggia il decreto sull’immigrazione messo a punto dal ministero dell’Interno, che mira nelle intenzioni del titolare Marco Minniti a “un nuovo modello di accoglienza, il più possibile diffusa”, grazie al progressivo superamento dei grandi centri di accoglienza e al coinvolgimento dei Comuni, che potranno anche impiegare, su base volontaria e gratuita, i richiedenti asilo in attività di pubblica utilità per colmare “il vuoto dell’attesa”.Convinto che “non c’è politica dell’accoglienza vera se non sono praticati i rimpatri”, il capo del Viminale punta in parallelo sugli accordi bilaterali con i Paesi di origine e transito per arginare i flussi e accelerare le espulsioni dei migranti irregolari. Accordi che Minniti difende convintamente, a cominciare dal memorandum da poco siglato con il governo di Tripoli, perché “il tema della tratta va affrontato in Libia”, ha ribadito ancora in occasione delle celebrazioni in Senato per i 20 anni dalla prima legge quadro sull’immigrazione, la Turco-Napolitano.Sulle barricate invece le associazioni riunite nella rete Romaccoglie che il 14 marzo scenderanno in piazza Montecitorio per chiedere che il decreto non venga convertito in legge. “Un provvedimento pessimo, un attacco al diritto all’accesso alla giustizia nei confronti dei richiedenti asilo”, è l’affondo di Lorenzo Trucco, presidente di Asgi, tra le associazioni aderenti alla manifestazione assieme a A Buon Diritto, Action diritti in movimento, Adif, Ala, Arci Roma, Asgi, Baobab Experience, CGIL Roma e Lazio, Resistenze meticce, Focus Casa dei Diritti Sociali, La Strada, Libera Roma, Lunaria, Senza Confine.Di fatto, dice l’avvocato a Piuculture, il decreto legge determina “un arretramento” sul fronte delle garanzie costituzionali, introducendo “un diritto speciale” nei confronti dei cittadini stranieri, considerati “persone di rango inferiore” alle quali viene negata non solo la possibilità del secondo grado di giudizio ma anche l’udienza davanti al giudice, sostituita da una videoregistrazione dell’audizione del richiedente asilo davanti alla Commissione. Due previsioni che “svuotano il valore della comparizione in giudizio”, sostiene Trucco in netta contrapposizione col guardasigilli Andrea Orlando, convinto invece che il decreto renderà “più snello il procedimento” senza “indebolire le garanzie”.Allo stesso modo l’associazione punta il dito contro quello che considera un inasprimento dell’approccio “securitario e repressivo”, fatto di rimpatri e detenzione amministrativa, e respinge le rassicurazioni del capo del Viminale, secondo cui i nuovi centri “saranno una cosa totalmente diversa” dai vecchi Cie, più volte finiti nel mirino delle organizzazioni per i diritti umani.Il restringimento delle garanzie processuali allarma anche i mediatori culturali interpellati da Piuculture, alle prese ogni giorno con il compito delicato di veicolare i racconti di persone vulnerabili e il pericolo, sempre in agguato, di incorrere in errori d’interpretazione. Un pericolo tanto più concreto, ci spiega N.M.R., se il “contatto umano” è sostituito da una videoregistrazione e “la vita di una persona si decide in un solo grado di giudizio” senza possibilità di ricorrere in appello.Desta preoccupazione anche il ritorno in auge dei centri per l’espulsione degli irregolari: “In sostanza, a parte il nome, non cambia niente. Il Cie è un carcere che vìola i diritti umani, un limbo” dove le persone vivono in sospeso ignare della propria sorte, spiega A. Z., che di strutture lungo la Penisola ne ha viste a sufficienza per concludere che è tempo di superare l’approccio “emergenziale” in favore di un piano strutturale e lungimirante di gestione del fenomeno migratorio.
Federica Giovannetti
(8 marzo 2017)
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