Ci sono i clochard ma anche le famiglie che vivono in case occupate, i rifugiati fuori dal circuito dell’accoglienza, i lavoratori domestici privi di residenza, i divorziati e i separati, e chi all’improvviso ha perso la casa e il lavoro. È una città nella città, fatta di migliaia di persone, quella dei “senza fissa dimora” a cui negli ultimi venti anni le associazioni di volontariato romane hanno garantito “visibilità” grazie all’iscrizione anagrafica virtuale.Un servizio che ora la giunta capitolina, con una delibera approvata lo scorso marzo, ha deciso di riportare sotto la competenza esclusiva dei municìpi. Nelle intenzioni dell’assessore alle Politiche Sociali Laura Baldassarre, la misura consentirà di “uniformare l’erogazione del servizio” e di “verificarne la corretta applicazione”.”Ci chiediamo come il Comune potrà concretamente garantire a tutti il diritto alla residenza senza un incremento delle risorse e dell’organico e senza un’adeguata formazione del personale”, ci dice Donatella Parisi del Centro Astalli, una delle associazioni che fino a oggi ha svolto questa funzione a costo zero per le casse del Campidoglio assieme a Caritas Roma, Comunità di Sant’Egidio, Esercito della Salvezza e Focus-Casa dei Diritti Sociali. “Teniamo presente che la residenza è la porta d’accesso a diritti fondamentali“, osserva d’altro canto Paolo Morozzo della Rocca della Comunità di Sant’Egidio. Già, perché solo con un indirizzo si può ottenere assistenza sanitaria e prestazioni sociali, iscrivere i figli a scuola, richiedere un documento di identità o la cittadinanza, esercitare il diritto di voto o riscuotere la pensione. “In questi anni abbiamo agito da facilitatori a beneficio di persone vulnerabili che hanno difficoltà a rapportarsi con le istituzioni. Parliamo di 18 mila persone, su un totale di 20 mila, che a Roma hanno un indirizzo fittizio”.Il rischio, ci spiega Parisi, è che molte persone vengano tagliate fuori dalla macchina amministrativa. “È estremamente difficile immaginare un senza fissa dimora, soprattutto se straniero, davanti a uno sportello del municipio” alle prese con moduli da riempire e domande troppo complicate a cui rispondere.Senza contare il carico di lavoro che incombe sugli uffici comunali già ingolfati e a corto di risorse. Un fronte che vede in prima linea gli assistenti sociali, a cui la delibera affida il compito di attestare la condizione di disagio come prerequisito per l’accettazione della richiesta di iscrizione: “Si tratta di funzioni del tutto improprie per i Servizi sociali”, taglia corto Giovanna Sammarco, presidente dell’ordine del Lazio degli assistenti sociali. “Siamo già al collasso e sottorganico. Ora le aree proprie dei Servizi sociali verranno ulteriormente sguarnite con ripercussioni su altri cittadini fragili”.Il Comune, ci dice Lorenzo Chialastri di Caritas Roma, “avrebbe dovuto procedere in modo più cauto, accompagnando questo passaggio con un periodo di affiancamento da parte delle associazioni“. Un “cambiamento repentino” che secondo le associazioni non trova giustificazione nell’esigenza ribadita dall’assessore di “contrastare l’uso distorto del servizio”, come l’intestazione di attività economiche presso residenze fittizie. “Il problema è già stato risolto due anni fa dalla Camera di Commercio, che ha vietato l’apertura di partite Iva prive di un indirizzo reale”.
Federica Giovannetti
(11 aprile 2017)
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