I civili yemeniti che muoiono sotto le bombe dell’Arabia Saudita, vendute anche dall’Italia. La guerra in Siria che si trascina da anni senza una soluzione all’orizzonte. La Libia governata dal caos, con cui l’Europa vorrebbe replicare l’accordo siglato con la Turchia per fermare il flusso dei profughi. Anche se il peso nella gestione dei rifugiati grava perlopiù sui Paesi mediorientali e africani. In uno scenario simile è messo sempre più a dura prova il lavoro di operatori umanitari e giornalisti. O di ricercatori come Donatella Rovera che per Amnesty International da anni fa indagini sul campo nei Paesi più poveri e instabili del pianeta. Parla con Piuculture via Skype dal Sud Sudan dove si trova a documentare il conflitto per l’Ong che amaggio ha spento 56 candeline.
Qual è la situazione nel Paese?
La situazione è disastrosa. C’è un conflitto settario, etnico che ha messo in fuga centinaia di migliaia di civili creando uno spostamento incredibile di persone all’interno del Paese, in Sudan e nel vicino Uganda. La gente scappa per non essere massacrata. E poi c’è la carestia. Le persone stanno letteralmente morendo di fame a causa del conflitto che ostacola l’arrivo e la distribuzione degli aiuti umanitari. È chiaro che si possono aiutare le persone se si riesce a raggiungerle. Quindi è necessario che la comunità internazionale faccia pressione sugli attori politici e militari sul terreno affinché cessi il conflitto.
Vengono in mente le immagini che giungono dallo Yemen, dove la popolazione anche lì sta morendo di fame.
Un conflitto assolutamente dimenticato, quello in Yemen. Il Paese più povero del Medio Oriente che viene bombardato quotidianamente dall’Arabia Saudita, il più ricco della regione. Una delle cause per cui in Occidente se ne parla così poco è perché non vediamo arrivare i profughi sulle coste europee. La popolazione vive incessantemente sotto le bombe ma non può fuggire.
La relazione privilegiata dell’Arabia Saudita con l’Occidente, e in particolare con gli Stati Uniti, è un’altra ragione?
Certamente, la coalizione internazionale guidata dall’Arabia Saudita bombarda la popolazione civile – come le case, le scuole e gli ospedali – in modo indiscriminato e con totale impunità.
E con le armi fornite dall’Italia, oltre che dagli Stati Uniti e dal Regno Unito.
La vendita di armi all’Arabia Saudita continua a alimentare il conflitto, mentre l’embargo (sulle armi destinate ai ribelli sciiti houti imposto dall’Onu nel 2015, ndr) impedisce l’arrivo degli aiuti umanitari.
E ora c’è anche il colera
Le persone stanno morendo non solo a causa delle bombe, ma anche per mancanza di cibo, di acqua potabile e di farmaci con cui arrestare l’epidemia. Senza contare che a causa del conflitto il sistema sanitario è al collasso.
Dallo Yemen alla Siria. In questi sei anni Amnesty International ha documentato crimini di guerra e violazioni del diritto internazionale commessi da tutte le parti in conflitto, a cominciare dal presidente Bashar al-Assad che ha potuto contare sul potere di veto di cui gode l’alleato russo in seno al consiglio di sicurezza dell’Onu.
In Siria la situazione si è lasciata marcire. In questi anni la comunità internazionale ha chiuso gli occhi mentre venivano bombardati ospedali, case, scuole. O di fronte alle torture, all’uso di armi chimiche e alle esecuzioni extragiudiziali. La situazione si è deteriorata a tal punto che al momento non vedo una soluzione per il Paese.
Tutto raccontato in tempo reale sui social network. Quello siriano è uno dei conflitti più documentati di sempre.
È vero. Ma vale anche per gli altri conflitti di cui si parla meno, come in Yemen e in Sud Sudan. I fatti si conoscono, sono verificati. Quindi la ragione per cui chi ha potere decisionale nella comunità internazionale non agisce non è certo la mancanza di informazioni ma di volontà politica.
I giornalisti come i ricercatori da tempo hanno abbandonato il Paese per ragioni di sicurezza.
Purtroppo negli ultimi anni sono aumentate le zone off limits in cui non è più possibile andare perché è troppo pericoloso. In molti Paesi l’accesso resta difficile e le condizioni di sicurezza sono pessime. Soprattutto per chi fa un lavoro di indagine che disturba. Il livello del rischio si è alzato notevolmente anche a causa dell’ingresso sulla scena di gruppi estremisti come Isis.
A proposito di Isis, al centro dell’attenzione ora c’è Mosul, dove l’esercito iracheno sta tentando di riportare sotto il proprio controllo le zone ancora nelle mani dello Stato Islamico. Con quali conseguenze per la popolazione?
Centinaia di migliaia di civili, presi fra i due fuochi, sono stati costretti a fuggire. Portare aiuto agli sfollati è davvero complicato. La situazione a Mosul è molto grave, ma non si parla degli oltre due milioni di profughi che provengono da zone liberate dall’Isis a cui è impedito dalle forze governative e dalle milizie paramilitari di tornare nelle proprie case. Amnesty International ha documentato sin dal 2014 i crimini atroci commessi con assoluta impunità dalle forze irachene.
I profughi. Assistiamo a movimenti imponenti di persone che avvengono in gran parte all’interno del continente africano e della regione mediorientale.
Per questo l’Europa non può continuare a sostenere che non è in grado di accogliere queste persone che scappano da morte certa mentre il peso dell’accoglienza grava sopratutto sui Paesi più poveri.
Quello che in assoluto accoglie più rifugiati siriani è la Turchia, con cui l’Unione europea ha siglato un accordo per arginare il flusso dei profughi. Ora l’Ue, capofila l’Italia, vorrebbe replicarlo con la Libia.
L’idea di fare il bis con la Libia è puramente illusorio. Si tratta di un Paese preda di centinaia di milizie e dove il governo riconosciuto internazionalmente controlla solo parte della capitale Tripoli. Rimandare le persone in Libia è inaccettabile dal punto di vista del diritto internazionale perché significa consegnarle nelle mani di milizie spietate, che torturano, stuprano, uccidono e fanno traffico di esseri umani. Senza dubbio la Libia non è un Paese sicuro. È necessario che ogni Stato, in Europa e nel resto dell’Occidente, faccia la propria parte.
Federica Giovannetti
(31 maggio 2017)
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