Il nuovo terrore tra moderne tecnologie e forme primitive: uno sguardo filosofico

Il terrore si impone con l'attentato alle Torri Gemelle
Il terrore si impone con l’attentato alle Torri Gemelle

La nostra epoca sta vivendo una forma inedita di guerra, una guerra civile globale che assorbe la totalità dell’esistenza ed entra nella vita quotidiana. La sua forma più efferata è il terrore, impostasi al mondo per la prima volta l’11 settembre 2001. Su questo riflette il libro di Donatella Di Cesare, Terrore e modernità, Einaudi, 2017, che mette in luce il nesso stretto tra il nuovo terrore e la globalizzazione, di cui è non solo l’effetto ma anche il vettore trainante: il nuovo terrore non è oscurantismo, bensì un prodotto del nostro mondo globalizzato. Il terrore proclamando la sua guerra totale al sistema planetario, fa saltare i confini e cancella le differenze tra guerra e pace, militari e civili, emergenza e normalità. L’autrice condivide l’analisi fatta dopo l’11 settembre dai filosofi Derrida e Baudrillard, secondo cui il terrore è il sintomo di una patologia autoimmunitaria di cui è portatrice la modernità, non già un incidente sulla strada del progresso, ma piuttosto un virus sviluppatosi nella civiltà fondata sul razionalismo illuminista. Contro questa modernità, che rifiutando la religione si è prosternata al denaro, alla tecnica, al progresso, combatte il terrorista.

Su cosa si fonda il legame tra religione islamica e terrorismo? 

I terroristi – sostiene la Di Cesare − non sono nichilisti, in quanto sono animati da un progetto politico o teologico-politico che rivendica il monopolio della negazione del mondo occidentale globalizzato. Antagonisti radicali al sistema, praticano il terrore richiamandosi a Dio e offrendo appartenenza alla loro comunità, ma il richiamo non è tanto alla religione musulmana tout court quanto piuttosto alle versioni più estreme e carismatiche dell’islamismo. Il neocaliffato dell’Isis è nato allo scopo di lanciare l’azione jihadista nel mondo e instaurare una teocrazia guidata dall’Islam contrapposta alla modernità occidentale secolarizzata. Ma è improprio definire i jihadisti fondamentalisti, cioè legati ai fondamenti della loro tradizione: sostenuti da una visione manichea del mondo diviso tra Bene e Male, persuasi di appartenere a un’avanguardia iniziatica detentrice della verità assoluta e certi di essere dalla parte giusta della Storia, questi “cavalieri postmoderni dell’apocalisse” confondono il testo con il manuale di jihad. La violenza non sta nel testo sacro ma nella presunzione di poterlo assumere alla lettera.

Chi è il “terrorista”? 

La Di Cesare traccia un profilo del jihadista. Figlio di immigrati si trova in un presente che non ha i tratti del futuro migliore per il quale i suoi genitori avevano lasciato la propria terra: si sente vittima due volte, perché privato delle radici per colpa dei padri, che hanno rinnegato la loro identità, e perché emarginato da una società che apparentemente offre tante possibilità di scelta ma a lui riserva umiliazione. Escluso, consegnato a rapporti frammentari, si imbatte in porte chiuse senza il conforto di un universo religioso, che gli resta sconosciuto. Il potenziale jihadista non è a casa in nessun luogo, né in quel presente desolato né nel passato irrimediabilmente sottratto. In questo malessere identitario, alla ricerca di un riscatto del suo orgoglio ferito, nella comunità virtuale del web può imbastire alleanze con chi gli è affine e qui scopre che la sua condizione di vittima è condivisa da altri: non è il solo a subire torti! E con una più consapevole ostilità guarda al mondo che lo circonda. L’orfano delle radici in via di radicalizzazione, per migliorare la sua condizione ha due vie: la delinquenza o l’introversione religiosa; proprio perché si sente vittima, la violenza diventa una prospettiva praticabile senza rimorso e la radicalizzazione si prospetta come una rinascita, una rigenerazione. Si separa dal mondo ingiusto e corrotto, e nell’accogliente comunità del web trova contenuti semplificati, testi confezionati da un’intraprendente intellighenzia jihadista che gli permettono di aggirare lo studio del Corano e di appropriarsi di pochi precetti utili all’azione. Di lì all’ingresso nei siti jihadisti il passo è breve, e qui ciascun membro è reso autonomo e legittimato a uccidere.

 

La morte “sacra” dell’omicidio-suicidio

L’aspetto inedito nella sua sconcertante enormità è l’arma usata dal terrorista: il ricorso alla propria morte per procurare la morte altrui. Questa arma assoluta, amplificata dalla spettacolarizzazione mediatica, scatena un processo catastrofico planetario, ingenerando un senso di impotenza. Qui il terrore asimmetrico raggiunge il suo apice.

La nostra cultura che enfatizza il valore della vita e rimuove la morte non ha strumenti per capire chi del suo atto di omicidio-suicidio fa un mezzo politico volto ad accelerare la catastrofe dell’Occidente e ad affermare il trionfo di una comunità ideale dei fedeli musulmani. In questo senso il gesto si inscrive in una “tanatopolitica” che si serve di alcuni precetti della religione islamica, ma non è una sua diretta emanazione; peraltro quest’ultima non ammette il suicidio, avendo solo Dio il potere di dare e togliere la vita.

Paradigmi interpretativi inadeguati

Il terrorista è l’agente di uno scontro di civiltà? la vittima delle diseguaglianze sociali e della crisi economica? il martire di una fede religiosa? Tutti e tre questi paradigmi interpretativi, pur contenendo spunti fecondi, offrono visioni semplificate del fenomeno. Il primo, nella sua visione fissa e monolitica di “civiltà”, costruisce l’immagine di due blocchi definiti rigidamente, rischiando di condannare tutto il mondo musulmano. Il secondo paradigma è limitato perché disagio e ingiustizia sociale non sono cause dirette, non considera che sono i poveri le prime vittime del terrore e tralascia altri interessi: il ruolo complice dei flussi del capitale finanziario e le ambiguità di paesi come l’Arabia Saudita e il Kuwait. Il terzo, che interpreta il terrorismo come sinonimo di fondamentalismo religioso, dimentica che si può essere fondamentalisti anche radicali ma non per questo terroristi e criminalizza la religione islamica.

La democrazia di fronte al terrorismo

Se la democrazia come risposta al terrore viola le sue stesse norme rischia di autodistruggersi. Dopo l’eliminazione di Bin Laden e lo smantellamento di buona parte della rete di al-Qaida, il terrore ha continuato a proliferare in Siria, Yemen, Nigeria, Mali e altri paesi, in nuove forme più virulente, da Jabhat al-Nusra all’Isis, mentre le istituzioni democratiche sono andate erodendosi ovunque insieme alle libertà civili. Le ragioni della sicurezza hanno preso il posto della ragion di Stato: la sicurezza richiede controllo, sorveglianza, repressione e soprattutto prevenzione, che presuppongono e alimentano la paura, cioè proprio ciò cui si vuole por fine. Lo Stato di sicurezza si rivela paradossalmente uno Stato di paura, una “fobocrazia”.

Donatella Di Cesare "Terrore e modernità"
Donatella Di Cesare “Terrore e modernità”

SCHEDA:

Donatella Di Cesare, Terrore e modernità, Einaudi 2017 (pagg.207; € 12,00)

Una decostruzione della storia del terrorismo e una riflessione sui legami indissolubili tra esso e la modernità globalizzata. Nel tracciare il profilo del jihadista che conduce la sua guerra totale contro il sistema occidentale con l’arma assoluta del suicidio-omicidio, il libro mette a nudo l’impotenza dei governi in questa guerra asimmetrica e i rischi per la democrazia.

(I: Il terrore planetario; II. Terrore, rivoluzione, sovranità; III.Jihadismo e modernità; IV. Sull’insonnia poliziesca)

Luciana Scarcia
(14 maggio 2017)

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