Siria, un Paese sfigurato dalla guerra

Al-Hatab Square, dove si affacciava il complesso monumentale di Waqf Ibshir Basha (S. Liste/Nyt)

Il complesso monumentale di Waqf Ibshir Basha, nella citta vecchia di Aleppo, è ridotto a un cumulo di macerie. Come gran parte del patrimonio storico in Siria, “è cancellato per sempre”, dice il professor Sami Haddad, che prima di trasferirsi a Roma, nel 1982, aveva contribuito, ancora studente di architettura, al restauro del sito risalente al XVII secolo. Ora insegna arabo all’università Orientale di Napoli. L’ultima volta che è stato in Siria era il 2008. La guerra non era ancora cominciata.

Sullo schermo del pc scorrono le immagini del portale che l’Unhcr ha realizzato assieme a Google, Searching for Syria. Una piattaforma interattiva che mette a confronto la Siria prima della guerra e il Paese sfigurato da sei anni di conflitto. “È come riaprire una ferita. È doloroso”.

Quel “patrimonio perso per sempre” era espressione di una convivenza millenaria tra confessioni religiose, etnie e culture diverse. “Gli ospedali, le scuole e le case si possono ricostruire. I siti archeologici, i monumenti, le moschee, le chiese no”. Una perdita inestimabile che secondo il professore equivale alla “cancellazione stessa dell’identità siriana”.

Scorrono le immagini della Siria pre-conflitto. “Un Paese molto più familiare di quanto si possa pensare” dove “lo sport, la moda e la musica erano tra i passatempi più popolari”, spiega la didascalia. “Una normalità solo apparente” in un “Paese governato da un regime dispostico”, commenta Haddad, che oltre all’architettura conosce anche la repressione di al-Assad padre, Hafiz, per averla sperimentata in prima persona da giovane membro del partito comunista siriano.

Lui è un rifugiato politico costretto, 35 anni fa, a scappare dal proprio Paese dopo quello che è passato alla storia come il “massacro di Hama” ordinato dall’allora presidente siriano per reprimere l’insurrezione ispirata dai Fratelli musulmani. Almeno ventimila morti e una città rasa al suolo. Era il gennaio del 1982. “A quel punto per me non è stato più possibile restare. Tutti i miei compagni erano finiti in prigione, torturati o uccisi”.

Di padre in figlio. “La repressione del 2011 non è un fatto isolato, contingente”, dice a proposito delle manifestazioni pacifiche soffocate sei anni fa da al-Assad figlio, Bashar, e da cui è scaturito un conflitto sanguinario e il più grande esodo di profughi dalla seconda guerra mondiale.

La famiglia d’origine vive ancora in Siria. “La nostra casa ad Aleppo è stata centrata da un missile nel 2014. È andata completamente distrutta. Ci vivevano i miei tre fratelli”. Ora sono sfollati  in una città nei pressi di Damasco tornata di recente sotto il controllo del governo. “Non possono raccontare cosa accade, non possono parlare”. Ma hanno scelto di restare. Solo i ragazzi se ne vanno appena compiuta la maggiore età. “La leva obbligatoria in un Paese in guerra significa andare incontro a morte certa”.

La devastazione che attraversa la Siria, dice Haddad, non è un danno collaterale della guerra.È  deliberata,  programmata. E quello che addolora di più è che il mondo assiste indifferente. Avevano detto ‘mai più’. Invece in Siria la storia si ripete”.

 

Federica Giovannetti

7 giugno 2017

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