“Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via“, scrisse Cesare Pavese nel suo ultimo romanzo. Parole con le quali Sumaia Abdirashid, giovane musulmana somala di 23 anni nata e cresciuta a Torino, si identifica molto. “Pur non avendo mai avuto l’occasione di andare nel mio paese, la Somalia mi manca proprio perché la immagino come il posto in cui mi sentirei a casa. Torino mi piace, è una bellissima città in cui si è svolta finora tutta la mia vita, ma certe volte mi chiedo come sarebbe stato crescere in un luogo dove il mio incarnato, il mio modo di vestire o la mia lingua non spiccassero in mezzo ad una folla. Ogni tanto mi ritrovo ad immaginare il giorno in cui ci “tornerò”, perché in qualche modo mi sembra di averne ereditato il ricordo attraverso i racconti dei miei genitori e dei nonni, ” racconta la giovane studentessa del primo anno di Magistrale in Architettura al Politecnico di Torino.Sumaia è una ragazza molto ambiziosa. Ama scrivere ed è una accanita lettrice. “Ho cominciato a scrivere ad otto anni. Prendevo i libri di Harry Potter e li copiavo, poi mi crogiolavo nella gioia di sentirmi come la Rowling. Inoltre, tutti i sabati andavo in biblioteca con mio padre e mio fratello, e con una mia amica facevamo a gara a chi leggeva più libri alla settimana, chi conosceva più classici, chi sapeva più poesie a memoria,” racconta Sumaia con tono nostalgico. “Se ripenso a quegli anni, provo invidia per tutto quel tempo libero.”Nel tempo, Sumaia, le ha provate tutte: scrivere storie online, comporre fanfiction… e da quando ha tredici ha iniziato una nuova avventura nel mondo dei blog. Nel 2014, Sumaia decide di partecipare al Concorso letterario nazionale Lingua Madre con il suo racconto “ci saranno giorni come questo” con il quale ha vinto il terzo premio. “Ho voluto dedicare il mio racconto a mia nonna. Infatti, per scriverlo mi sono ispirata al rapporto che ho con lei e con ciò che mi racconta del nostro paese.“Per Sumania, un altro aspetto molto importante della sua vita è la religione: ”Per me è come una lente con la quale vedo il mondo: un po’ più buono, un po’ più bello, un po’ più ordinato. Nella mia religione, l’Islam, quello che l’occidente chiama velo si chiama in realtà hijab, che significa coperto. Io lo porto, e direi che ho con esso lo stesso rapporto che ho con il resto degli indumenti che indosso: quotidiano. Non vivo grandi stranezze, ormai sono passati gli anni in cui dovevo spiegarmi o sentirmi diversa. È normale: c’è chi indossa croci, chi indossa teschi, io indosso veli. Credo nella mia religione e scelgo di praticarla nel modo più coerente possibile con i miei principi”.Secondo Sumaia il principale pregiudizio oggi verso una ragazza con il velo come lei, da parte di chi non la conosce, è che il velo sia un’imposizione da parte della sua famiglia, e che quindi sia in qualche modo oppressa e bisognosa di una liberazione. “Difficilmente si vede una ragazza col velo e si pensa: Ah, ecco una donna emancipata che sceglie ciò che ritiene meglio per se stessa”, spiega Sumaia.Allo stesso tempo, la giovane si mostra preoccupata per la confusione che c’è nella nostra società tra Islam e musulmani. “Ciò che sta cambiando oggi in Occidente non è l’Islam – quello rimane immutato nel tempo e nello spazio”, spiega Sumania. “Cambia come lo praticano i musulmani. E ciò che viene professato non è tutto Islam, molto spesso ognuno si porta dietro un bagaglio culturale non da poco che può fare più o meno fatica a conciliare con la cultura europea.“Anche la purtroppo ricorrente associazione tra terrorismo e Islam è, secondo la giovane, un’associazione infelice, risultato di rapporti geopolitici tra occidente e medio-oriente molto travagliati e mai del tutto risolti. “Quel che un musulmano fa nella sua vita non è sempre dettato dall’Islam, così come quel che fa un cristiano non sempre è dettato dal Cristianesimo. Se l’Islam davvero invitasse noi credenti ad attaccare tutti gli infedeli, dovrebbe venire da chiedersi come mai è solo una così bassa percentuale a farlo, si parla di meno dell’1% dei musulmani. E bisognerebbe chiedersi come mai si è così pronti ad accettare le giustificazioni dei terroristi, e non quella dei comuni credenti. Come mai si accetta la lettura di una minima percentuale di musulmani, peraltro criminali, e la si usa per zittire quella di una maggioranza che non fa altro che condannare simili barbarie che derivano da interpretazioni erronee della religione?”.Domande che Sumaia cerca di chiarire spiegando come spesso si sottovaluti il fatto che ogni musulmano sia diverso dall’altro e viva la propria religione a suo modo. Un pensiero che ha condiviso anche all’interno dell’evento Giovani musulmane in Italia: Identità, differenze, cittadinanza tra percorsi biografici e pratiche quotidiane al quale ha avuto l’opportunità di partecipare l’anno scorso al Salone del Libro di Torino. “La manifestazione mi è sembrata un’ottima occasione di dialogo, tra musulmani e non-musulmani e mi ha permesso di intervenire proprio nelle vesti di me stessa raccontando la mia esperienza come giovane studentessa di architettura, musulmana, somala, nata e cresciuta a Torino,” spiega.Un’opportunità molto gratificante per una ragazza piena di aspirazioni e con poco tempo libero a disposizione, obbligata, per ora, a riporre in un cassetto il suo sogno di scrivere un libro sulla diaspora somala. La speranza però è che tutte queste ambizioni maturino invece di appassire.
Cristina Diaz18/08/2017
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