Magheda giurata al Medfilm per riconciliarsi con le sue radici

“Magheda è il nome di una regina pre-faraonica. Ma io sono nata a Roma, anche se tutti pensano che sia straniera”.Di padre egiziano e madre italiana, Magheda si sente un mix un po’ particolare. “Sono nata in Italia, ho nome e cognome stranieri, ma non parlo l’arabo, perché quando ero piccola i miei genitori si sono separati e quel poco arabo che sapevo l’ho perso”.

Vorrebbe ritornare in Egitto per riappacificarsi con le sue radici, ma il suo sogno è difficile da realizzare a causa del lavoro che le sottrae moltissimo tempo, spesso anche il week end.La lingua araba rimane qualcosa da riconquistare al più presto, le radici si sentono e si faranno sempre sentire “so che finché non imparerò la lingua di mio padre mancherà una parte di me, rimarrà aperto il gap che ho da colmare”.

La consapevolezza di avere un’identità multipla spinge Magheda a lavorare per il World Food Program delle Nazioni Unite e a collaborare con Amnesty International in progetti contro l'”hate speech”.“E’ un sogno per me perché è come se fossi sempre all’estero: ci sono persone venute da ogni parte del mondo. Ho scoperto molte cose, per esempio che esistono nomi simili al mio in Libano, che hanno come comune radice Majeed. In questo contesto c’è quel tipo di apertura che avevo trovato solo a Piuculture e che poi ho ritrovato ad Amnesty. Fuori non è così: quando ho lavorato in ambito italiano mi hanno chiesto addirittura se fossi talebana”.

Quest’anno Magheda farà la giurata alla 23° edizione del Medfilm Festival, che si terrà dal 10 al 18 novembre al cinema Savoy e al Macro.“Il cinema del mediterraneo richiama per me radici forti che ho rinnegato a lungo: è un’occasione per far pace con la mia parte araba. Inoltre è una cinematografia che non è molto diffusa in Italia e che è stata a lungo bistrattata. Dà l’opportunità di entrare in contatto con vite di coetanei completamente diverse. E’ solo un caso dove nasciamo”.

Magheda è appassionata di cinema e già l’anno scorso ha collaborato, con ragazzi di prima o seconda generazione, alla sezione “Alice nella città” al festival del cinema di Roma.“Una volta a settimana vado a vedere un film, di solito d’autore. L’idea di stare per dieci giorni tutte le sere al Medfilm mi ha conquistato. Sono curiosa anche di conoscere gli altri giurati, ho letto le loro biografie, non vedo l’ora di incontrarli”.Centrale nell’edizione di quest’anno del Festival è la figura della donna nel Nord Africa, come è manifesto dall’immagine di Medea scelta per la locandina.“E’ l’archetipo della donna forte e mi sembra molto adatto. C’è un po’ in tutti noi quell’espressione vendicativa di dolore. Un dolore che non è mai affrontato in maniera banale. Lo sguardo dei registi arabi è sempre poetico e ben riconoscibile. Quella della donna è una figura cardine, mi sembra una grande conquista che sia il soggetto principale delle storie di quest’anno, visto che è sempre stata lasciata un po’ in disparte nel cinema nordafricano e nel mondo arabo più in generale”.

“Nel mio lavoro ho avuto a che fare con donne arabe e mi ha colpito la forza, l’integrità, la ritrosia ad aprirsi che non è diffidenza ma è voglia di scoprirsi a poco a poco. Questo mi colpisce perché io vengo spesso considerata una donna araba e sento questo dualismo”.

 

Elena Fratini

(07/11/2017)

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