Suvashun una storia persina è il primo romanzo storico e di impegno civile dell’Iran scritto, per di più da una donna, nel 1969. La cornice è quella dell’occupazione militare di Shiraz nel ’41 da parte delle truppe russe e inglesi che decidono di intervenire contro lo Shah Reza Khan, sospettato di volersi alleare con la Germania, mettendo a disposizione dei nazisti le riserve di petrolio del suo paese. Sono gli anni della seconda guerra mondiale con intere città europee distrutte e bombardate dalla follia nazista. L’episodio iraniano che pure resta nella storia interna come una ferita ancora aperta nei confronti degli inglesi, ha poca risonanza ed è poco conosciuto. A Simin Daneshvar va il merito di averlo riportato alla luce.Padre fisico, madre pittrice, Simin Daneshwar appartiene a una famiglia di intellettuali che le assicura la migliore educazione possibile a Tehran dove frequenta la scuola inglese Mehr Ain. Poi si iscrive all’università di Letteratura Persiana. Dopo la morte del padre, per supportare economicamente la famiglia, comincia a scrivere testi e articoli per Radio Tehran e per il giornale Iran e a lavorare come assistente in relazioni internazionali presso il Ministero degli Affari Esteri. Poi diventa traduttrice di autori europei, fra cui Chechov e Moravia. Scrive la sua tesi “Beauty as Treated in Persian Literature”, sotto la guida di Fatemeh Sayyah, la prima docente donna in un’università iraniana.Ci sono tutte le premesse perché Simin diventi una protagonista tra le donne iraniane, la prima ad esempio, che quando scoppia la rivoluzione khomeinista e con essa l’obbligo del velo per le donne, chiederà, senza successo peraltro, che venga revocata un’imposizione che non è prevista in nessun passaggio del Corano.Nel 1950 si sposa con Jalal al-Ahmad, più giovane di lei e già noto scrittore iraniano, al quale resterà indissolubilmente legata in un sodalizio di “testa e di cuore”. Contrariamente alla tradizione familiare iraniana continua la sua formazione, dopo il matrimonio, negli Stati Uniti. E’ studente Fulbright presso la Stanford University, dove segue il corso di scrittura creativa con Wallace Stegner. Durante quel soggiorno scrive in inglese e pubblica due racconti brevi. Una volta rientrata in Iran entra, come insegnante di storia dell’arte, a far parte del collegio docenti del Dipartimento di Archeologia presso l’Università di Tehran. Ma ai servizi segreti iraniani, la tristemente nota Savak dei tempi dello Shah, il suo metodo di insegnamento non piace e la costringono a rassegnare le dimissioni. A questo punto Simin si dedica completamente alla scrittura, carriera che non si interrompe nemmeno negli anni in cui vive sotto al regime islamico, ricorrendo ad espedienti come quello di far parlare nei suoi scritti una “donna folle” alla quale dunque è permesso di esprimersi liberamente, in quanto dichiaratamente pazza e dunque “non attendibile”. Allo stesso tempo la scrittrice, morta l’8 marzo del 2012, appoggerà incondizionatamente le aperture progressiste del presidente riformista Mohammad Kathami.L’eccezionalità di un libro come Suvashun è il fatto che la storia viene raccontata dal punto di vista di Zari, una donna che appartiene a una famiglia benestante e “illuminata” di Tehran. “Sottomettersi e soffrire, ribellarsi e morire”. Questo il dilemma che opprime Zari che cerca di bilanciare l’amore per la sua famiglia e per suo marito, che vuole proteggere a tutti i costi, e l’amore per il suo paese. Di fronte a sé due esempi: quello di Yosuf, marito idealista e sognatore che arriva fino alla morte pur di non arrendersi al “nemico” e quello di suo cognato che, invece, fa affari con gli inglesi e ne approfitta per arricchirsi e godere di una protezione incondizionata, anche se temporanea. Indecisa tra queste due posizioni, Zari affronta la realtà a faccia aperta solo dopo che il marito viene assassinato. “Hanno ucciso mio marito ingiustamente dice alla polizia durante la processione funebre. Il minimo che si possa fare è piangerlo. Il lutto non è proibito, lo sai. Durante la sua vita, eravamo sempre spaventati e cercavamo di farlo spaventare a sua volta. Ora che è morto, di cosa abbiamo più paura?”.La presentazione alla Filarmonica Romana si è svolta nell’ambito della settima edizione della “Giornata dedicata all’Iran” organizzata da Parisa Nazari presidente dell’Associazione “Donne per la dignità” che si è trasferita in Italia 18 anni fa per amore, sia di suo marito, sia del nostro paese, malgrado ciò non ha mai dimenticato le sue origini.“E’ un libro – ha detto la Nazari – che sembra essere stato scritto per un pubblico anche non iraniano al quale la Daneshvar racconta minuziosamente i rituali, i cibi, le tradizioni, sullo sfondo di quegli anni tragici dell’invasione di Shiraz, città simbolica nel culto religioso iraniano, terra d’origine del poeta Hafez. Un libro che aiuta a capire anche l’Iran di oggi nel quale le donne sono molto diverse da come di solito vengono immaginate: rassegnate, associate prevalentemente, se non soltanto, all’immagine negativa dell’obbligo di portare il velo”.“Mi piace molto la capacità delle donne iraniane – ha aggiunto Tiziana Buccico, giornalista che in Iran ha vissuto per 8 anni come moglie dell’addetto culturale dell’Ambasciata Italiana e che ha avuto il compito di portare il libro in maggio alla Fiera del libro di Tehran – di fare tesoro del passato, delle tradizioni e della storia del proprio paese che non rinnegano completamente, riuscendo allo stesso tempo a vivere pienamente nel presente, disposte a combattere le proprie battaglie”.“Anche la scelta di Simin – ha spiegato la Vanzan – di scrivere in una prosa semplice, più vicina possibile alla lingua parlata, in contrasto con la tradizionale prosa paludata e spesso incomprensibile alla maggior parte del pubblico dei lettori, è stata una scelta politica, unica per l’epoca. Una vera e propria protesta democratica nei confronti di un regime imperiale e autocrate. Ma allo stesso tempo – ha aggiunto la traduttrice – la prosa di Simin è complessa perché l’autrice gioca con le parole, rendendo di fatto a volte impossibile non spiegare in nota o nel glossario i diversi strati di significato. E perché la vicenda si snoda fra un dedalo di usanze ancora vive nell’Iran contemporaneo, in cui molti termini sono altamente connotativi, così da richiedere di essere “sciolti” a favore dei lettori, anche dei più consumati”.A partire dagli anni ‘80 Suvashun, che in Iran viene considerato da milioni di persone come uno dei principali esempi di prosa moderna iraniana ed è trasmesso di generazione in generazione. Oggi il romanzo è stato tradotto in diciassette lingue, con due versioni in inglese, e altre in giapponese, francese e in molte altre lingue. Solo il pubblico italiano non aveva ancora avuto la possibilità di poterlo leggere nella propria lingua. “Quando lo proponevo agli editori italiani, anche i più famosi – dice a margine della presentazione – la professoressa Vanzan, iranista e islamologa che insegna Cultura Araba all’Università di Milano e Storia e Cultura del Medio Oriente all’Università di Pavia – mi rispondevano che volevano qualcosa di più “leggero”, qualche storia d’amore o melodrammatica che si leggesse facilmente senza porsi troppi problemi. Era solo un pregiudizio perché Suvashun è anche tutto questo: la relazione tra i due protagonisti Zari e Yusuf è uno specchio di quella tra la scrittrice e il marito basata sull’amore, sul rispetto reciproco e la complicità. Dopo un anno di collaborazione con l’editore Brioschi che all’Iran e al Medio Oriente in generale ha dedicato la collana “Gli Altri” – conclude sollevata la professoressa – finalmente la pubblicazione”.Alla presentazione del libro ha fatto seguito il concerto “The sound of the brotherhood” dedicato alla musica tradizionale persiana da sette musicisti che hanno studiato tutti negli anni ’90 al Conservatorio di Tehran e poi si sono trasferiti in paesi diversi. Tra gli artisti che si sono esibiti c’è Ava Rostamian, voce solista, che in Iran non potrebbe esibirsi perché alla donne è vietato cantare in pubblico. Rigorosamente tradizionali anche gli strumenti che hanno suonato: il Santur, una tavola a corde percosse nato in Iran e diffuso in tutto il Medio Oriente; il Duduk strumento a fiato che proviene dall’Armenia; il kamancheh, lontano antenato del violino; il tar simile al nostro liuto e suonato con il plettro; e il tombak a percussione.
Francesca Cusumano
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