“Siamo stati immediatamente conquistati dal sorriso di Amodou e da quel momento è iniziata una splendida esperienza di convivenza che dura da un anno: ricordo ancora la prima volta che mi ha chiamato “mamma”. Per me è stata la conferma che il nostro rapporto non era di semplice ospitalità ma era diventato qualcosa di simile ad una famiglia.” A parlare è Patrizia che insieme a suo figlio, Davide, hanno deciso di aprire le porte della loro casa e ospitare Amodou, giovane ragazzo maliano, titolare di protezione umanitaria.“All’inizio c’è stato qualcuno che ha storto il naso perché ha pregiudizi e pensa che chi è musulmano sia un terrorista,” continua. “È una gabbia mentale. Spesso le persone hanno paura di quello che non conoscono. Che paura bisogna avere? Sono ragazzi! Penso che per dare affetto e supporto non servano soldi: aggiungere un piatto di pasta in più e un letto non costa nulla,” spiega.Patrizia e Davide non sono gli unici, come loro, altre 119 famiglie in tutto il territorio italiano, delle quali oltre 20 romane, hanno deciso di adottare questo modello di accoglienza promosso da Refugees Welcome dal 2015. Si tratta di una piattaforma online che mette in contatto profughi alla ricerca di un tetto e famiglie pronte a ospitarli.Per Rayane, rifugiata dello Swaziland, essere accolta in casa di Livia e Stefania è stato un modo per riprendere in mano i suoi progetti di vita, “in particolare quello di continuare a studiare,” spiega la giovane. “Infatti, grazie al loro supporto ho vinto una borsa di studio all’Università americana di Roma che mi permetterà di frequentare il corso di comunicazione.” “È facile dire di accogliere”, aggiunge la mamma Stefania, “ma poi quanti sono in grado realmente di aprire le porte della propria casa?”Sempre tra le famiglie romane c’è quella di Cinzia che per il suo compleanno ha chiesto come regalo di offrire la loro casa a un ragazzo rifugiato e ora, da poco più di due settimane e grazie all’appoggio di suo marito e di sua figlia, accolgono Mamadou, un giovane proveniente dal Mali. “Questo tipo di accoglienza è un metodo molto utile ed efficace perché si eliminano i pregiudizi.“Abdoulei, classe 97 e proveniente dal Gambia, ha ricevuto uno dei più bei regali per il suo diciotto compleanno: essere ospitato da Alessia, Marco e il loro figlio di tre anni nell’appartamento dove abitano a Roma. “Sono stati otto mesi di convivenza meravigliosi. Insieme a loro ho imparato a cucinare la lasagna e ma sopratutto ho migliorato il mio italiano. Questo mi ha permesso di trovare lavoro come pizzaiolo da Eataly e iniziare ad essere autonomo. Infatti, è da settembre che ho iniziato una nuova vita in un’altra casa e loro si sono trasferiti a vivere a Milano, ma siamo sempre in contatto e non vedo l’ora di andare a trovarli”, racconta il giovane.Questi sono soltanto alcuni esempi di storie di chi in questi tre anni ha realizzato felicemente questo tipo di esperienza di accoglienza che da oggi, grazie alla pubblicazione del primo rapporto delle attività e delle linee guida di Refugees Welcome, sarà più facile replicare.“Lo scopo è quello di mettere a servizio di chiunque sia interessato l’esperienza che noi abbiamo fatto in questi anni e le riflessione che sono emerse. Non soltanto il lavoro sul campo ma anche la metodologia che abbiamo impiegato e che speriamo sia utile e, perché no, anche replicabile dalle istituzioni, dal mondo del volontariato e dai gruppi informali che vogliono creare piccoli team di accoglienza in famiglia,” spiega la presidente di Refugees Welcome Fabiana Musicco.Tre anni faticosi ma allo stesso tempo straordinari nei quali l’associazione ha voluto dimostrare che l’accoglienza in famiglia è possibile. “In questi anni abbiamo avuto la tenacia e la competenza di creare un modello di lavoro che ci ha consentito di accogliere 120 persone in Italia e un totale di 1200 famiglie e 3500 rifugiati iscritti alla piattaforma. Inoltre, si sono creati 18 gruppi territoriali attivi in diverse città italiane.”Dalle linee guida presentate lo scorso 17 dicembre emerge anche che le persone accolte dalle famiglie sono per la maggior parte titolari di protezione umanitaria (58%), seguiti da rifugiati (20%) e titolari di protezione sussidiaria (16%). L’85% sono uomini e provengono da 28 Paesi diversi, i più rappresentati sono Gambia e Mali. Per quanto riguarda le famiglie più disponibili ad accogliere con questo modello sono coppie con figli, seguite da single e da coppie senza figli. La durata media di ogni convivenza è di sei mesi anche se alcune poi sono diventate a tempo indeterminato.Ma come in tutti i progetti ci sono anche delle difficoltà come spiega Musicco. “Molto spesso le aspettative della famiglia sono molto alte per quanto riguarda la creazione di una relazione significativa ma, purtroppo, non è detto che si possa creare sempre perché magari la persona che viene ospitata attraversa un periodo difficile e non ha la capacità di creare una relazione così importante come quella che invece la famiglia vorrebbe instaurare.”L’associazione però guarda al futuro con speranza e si augura che presto, questo tipo di accoglienza, sia attiva in tutto il Paese e non riguardi soltanto rifugiati e richiedenti asilo. Soprattutto con l’entrata in vigore del decreto sicurezza dopo il quale il numero degli attivisti e delle famiglie che si sono iscritte alla piattaforma è aumentato. “Questo ci ha dato la conferma che ci sia una risposta della società civile che non vuole chiudere i porti e vuole, anzi, aprire le porte.”
Cristina Diaz19 dicembre 2018
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